La Repubblica - 01 marzo 2021
di Enzo Bianchi
Non è un mistero ma un enigma mai risolto: quello del dolore, della sofferenza nell’umanità e nel mondo. Enigma che accompagna l’essere umano in tutti i tempi e le culture, che desta domande alle quali non si danno risposte convincenti, che le religioni e le spiritualità tentano di trasformare in mistero, senza peraltro riuscirci.
In questa stagione di pandemia che continua ad attaccarci con le sue ondate, cresce la cognizione del dolore, anche se nella nostra vita sociale e personale quotidiana domina non solo una algofobia, una paura angosciata del dolore. Si cerca anche di rimuoverlo e di negarlo, giudicandolo il grande intruso nelle nostre vite. In realtà, nel tentativo di leggere – non dico di spiegare – il dolore, dovremmo saper distinguere tra il dolore fisico con la sua insensatezza e la sofferenza che è sensibilità, vulnerabilità, persino passione.
Oggi preferiamo invece ricorrere a ogni tipo di anestetico per non attraversare terre di dolore. Anche nelle storie d’amore pensiamo che, se dobbiamo soffrire, allora non vale la pena di percorrerle, e spegniamo ogni fiducia nell’altro, fiducia che richiede a volte di soffrire insieme per poter vivere insieme. Confesso inoltre la mia personale e crescente idiosincrasia per la nuova “religione” che avanza: una ricerca dello “stare bene” con sé stessi e con gli altri, un spiritualità etico-psicologica del benessere personale, una salvezza che coincide con un’armonia anestetizzante e palliativa.
Pensiamo alla felicità come a un diritto, e proprio per questo ci siamo resi ancora più infelici: nelle nostre esistenze la felicità si dà solo come un’ora, una stagione, un attimo, mentre non riesce mai a rimuovere il dolore che appare come necessitas della nostra fragilità e mortalità. Il dolore fa parte della vita, per questo Eraclito ammoniva: “È la malattia che rende dolce la salute, la fame che rende piacevole la sazietà, la fatica che ci fa amare il riposo”.
Tutti abbiamo imparato che il dolore va combattuto, che occorre resistergli, e soprattutto che il dolore fisico va vinto, pena la disumanizzaione. Ma l’aver sofferto ci cambia, può significare una catarsi, può renderci esperti in umanità, capaci di com-patire la sofferenza. Nessuna glorificazione del dolore, e i cristiani al riguardo devono vigilare sulle pesanti eredità del passato; nessuna offerta a Dio del dolore; nessuna resa, ma una resistenza per alleviare il dolore e, nel contempo, una sottomissione alla nostra fragilità.
Chi legge con sapienza la sua vita passata, comprende che senza dolore non ha né vissuto né amato, ma ha praticato solo una sopravvivenza anestetizzata priva di sapore. Come ricorda Alain Badiou nel suo libretto aureo Elogio dell’amore, ci sono siti di incontri che promettono: “È possibile amare senza soffrire”. Ma in realtà se noi siamo invulnerabili l’altro non riesce a ferirci, allora è solo un oggetto per il nostro consumo. Una canzone che più volte ho ascoltato in Andalusia, in Provenza e in Grecia ammonisce: “Se ami, tu soffri. Se sei felice, tu soffri. Se vivi, tu soffri”. Amo canticchiarla ancora da vecchio.