La Repubblica - 08 marzo 2021
di Enzo Bianchi
Francesco sta per iniziare il suo nono anno di pontificato, e ormai ne conosciamo il carattere, la postura e anche i limiti nell’esercizio del ministero petrino che ha assunto con forza e determinazione. Ma quando siamo raggiunti dalla notizia di alcuni gesti in particolare non possiamo che rimanere colpiti dalla sua qualità evangelica accompagnata da una fede salda, rocciosa, che non teme nulla se non ciò che può contraddire il Vangelo.
Questo viaggio nelle pianure dei due grandi fiumi, nella terra di Abramo, tra chiese oggi ancora perseguitate e rosseggianti del sangue dei martiri, mostra ancora una volta come Francesco concepisca il suo servizio nella chiesa e nel mondo: come un servizio a favore di tutta l’umanità.
Conosco quel mondo dove le comunità cristiane si sono ridotte di più di due terzi: trecentomila fedeli appartenenti a diverse piccole chiese orientali cattoliche e ortodosse, comunità in diaspora che hanno conosciuto una fuga di massa verso l’occidente o le nazioni vicine a causa della persecuzione del Daesh, ma già da tempo estenuate dall’isolamento e dalla povertà. Conosco anche dei monaci che in comunità di quattro o cinque continuano da secoli a essere presenti con la preghiera incessante, il lavoro quotidiano e l’ospitalità offerta anche ai non cristiani. Questa è la terra che a causa di menzogne dell’occidente si è vista coinvolta dall’oggi al domani in una guerra terribile, che Giovanni Paolo II tentò di scongiurare con tutte le sue forze: una guerra che ha devastato, terrorizzato chi l’ha vissuta, facendogli conoscere il “Male” nella sua cecità. Non fu possibile allora a Giovanni Paolo II, proprio a causa della guerra del Golfo e dello strascico di tensione che lasciava dietro di sé, recarsi al cuore del conflitto anche se lo desiderava molto.
Papa Francesco, con tenace determinazione, ha imposto la sua volontà e l’abbiamo seguito in quel suo attraversare quella terra desolata. È andato a recitare la professione di fede che la Bibbia chiede a ogni figlio di Abramo: “Mio padre era un arameo nomade, errante…”, nell’intento di manifestare che il riferimento di ebrei, cristiani e musulmani allo stesso padre nella fede è un impegno alla fraternità, al dialogo, a camminare insieme per costruire insieme un mondo nella giustizia e nella pace. Ha voluto incontrare Al-Sistani, il capo spirituale degli sciiti dell’Iraq a Najaf, dove è sepolto l’imam Ali, un celebre santuario meta di pellegrinaggi, per confermare quel dialogo e quell’impegno preso con il grande imam Al-Tayyeb, la più alta autorità sunnita. E infine ha voluto ancora una volta chiedere perdono, confessarsi penitente per tante crudeltà che hanno visto come protagonisti i cristiani contro altri cristiani, i cristiani contro altre espressioni religiose e culturali. Certo non è mancata una parola di consolazione ai cristiani perseguitati, o ancora in pericolo, minacciati da gravi ostilità, e la richiesta di un atto di coraggio, per restare in quelle terre, che sono terre anche cristiane fin dall’inizio del cristianesimo, terre in cui essere cittadini cristiani accanto a cittadini musulmani, ma tutti impegnati a cercare e vivere la pace. Per ora abbiamo un Papa che è profeta e uomo disarmato, uomo di pace.