Pubblicato su: Jesus, La bisaccia del mendcante
Marzo 2021
di Enzo Bianchi
Nella generazione entusiasta del ’68 risuonava come uno slogan un’affermazione di don Lorenzo Milani, che dava il titolo anche a un suo libro diventato un manifesto: “L’obbedienza non è più una virtù”. In quell’epoca incontrai don Milani e confesso che ebbi con lui un colloquio non certo concorde: a me, che muovevo i primi passi nella vita monastica, quell’affermazione non piaceva, e più volte la criticai anche pubblicamente nei miei scritti e nei miei interventi ecclesiali.
L’obbedienza è la postura essenziale al cristiano che vuole seguire le orme del suo Signore, il quale “si fece obbediente fino alla morte e alla morte di croce” (Fil 2,8). In base alla mia formazione umana e cristiana l’obbedienza non poteva essere certamente una demissione rispetto alla propria soggettività e alla propria coscienza, e tantomeno un’obbedienza fuori dallo spazio del Vangelo. Mi avevano infatti sempre insegnato che non si deve assolutamente obbedire a comandi contraddittori rispetto al Vangelo, contro la ragione, o semplicemente impossibili perché superiori alle forze e alle capacità di una persona.
A poco a poco imparai con la vita – oserei dire con la carne – cos’è l’obbedienza cristiana: una lunga fatica, un percorso mai concluso se non al momento della morte, quando il cristiano dice il suo “amen” nella fede, lasciando questo mondo per cadere nelle braccia misericordiose del Signore. Sì, l’obbedienza cristiana è anzitutto creaturale: dire un sì alla vita, all’assunzione di sé, alla propria origine, al proprio corpo, alle proprie forze e alle proprie debolezze fisiche e psichiche. Nasciamo e cresciamo mai senza bagagli, e dobbiamo giungere in primo luogo all’obbedienza creaturale: senza di essa non si può obbedire né al Creatore né alla sua parola.
L’obbedienza a se stessi va declinata come capacità di ascoltare, di obbedire al proprio essere – corpo, spirito e psiche –, al fine di realizzare se stessi, la propria vocazione e aderire alla realtà in cui siamo posti. Questa prima, radicale obbedienza è la traccia per un cammino di umanizzazione, nel quale può risuonare per grazia la parola di Dio. In questo senso obbedienza è ascolto: ascolto della parola di Dio inscritta nella creazione, contenuta nelle sante Scritture, eloquente nella comunità cristiana. In questo itinerario si innesta il primato di Gesù Cristo, exéghesis, racconto di Dio (cf. Gv 1,18), che è via (cf. Gv 14,6) di obbedienza nella libertà e per amore. Come egli, infatti, “imparò l’obbedienza dalle cose che patì” (Eb 5,8), così anche noi, alla sua sequela, sempre sotto la guida e l’aiuto dello Spirito santo.
Se questo è il tragitto dell’obbedienza, resta vero che nella comunità cristiana vi sono mediazioni umane: delle guide, dei pastori, dei preposti (epískopoi), che hanno l’incarico di essere per ogni cristiano occasione di obbedienza al suo Signore. Sono e restano dei servi (diákonoi), dei fratelli e delle sorelle, ma il loro compito è preciso e necessario: costoro hanno un’exousía, un’autorevolezza conferitagli dalla saldezza nella fede e dalla capacità di misericordia. Ecco ciò su cui va misurata la loro autorità! Guai invece a chi presiede e pensa che l’obbedienza gli sia dovuta; guai a chi presiede e instaura una relazione di asservimento nei confronti dei fratelli e delle sorelle a lui affidati; guai a chi comanda ma senza ascoltare, senza mai rispondere alle domande della comunità e senza riconoscere il fratello o la sorella più demuniti nella parola e spesso piccoli, semplici, fragili; guai a chi presiede minacciando sanzioni o aumentando leggi e osservanze.
Certo, chi presiede può anche, raramente, dare dei comandi. Mai però con fare imperativo, ma sempre svelando al destinatario come il Vangelo lo richiede e i bisogni della comunità. Eppure oggi c’è chi parla di nuovo di obbedienza cieca, di obbedienza da praticare senza confronto, senza il cammino faticoso della ricerca, fatta insieme, della strada del Vangelo. Qui occorre da parte del cristiano opporre resistenza, nel nome della libertà dono dello Spirito santo: infatti, “dove c’è lo Spirito del Signore, c’è libertà” (2Cor 3,17).