Corriere della Sera - 20/04/2007
Intervista di Fabio Cutri
Per il priore di Bose, biblista, l’Apocalisse ci pone davanti a un bivio: imboccare subito la via dell’amore oppure affrontare il castigo
«Il Regno verrà, ci dice il profeta, i giusti che soffrono saranno premiati. Ma prima di assaporare la ricompensa, di poter entrare nella Gerusalemme celeste, siamo posti di fronte a un bivio: imboccare subito la via dell’amore e della vita oppure quella della morte e della perdizione ».
Padre Enzo Bianchi, biblista e fondatore della comunità monastica di Bose, è convinto che l’Apocalisse non debba rassicurare l’uomo, bensì incalzarlo, scuoterlo.
Come devono essere lette oggi le visioni di Giovanni?
«Esattamente come duemila anni fa. Sono innanzitutto un appello alla libertà e un’invettiva contro chi sceglie il male o chi, altrettanto empio, non ha ancora scelto il bene. Dure sono le immagini perché dura è la condanna per gli avversari della Chiesa, ovvero il potere politico totalitario e le sue ideologie».
Quando il libro venne scritto, nel I secolo, i primi cristiani perseguitati credevano imminente il ritorno del Cristo. Oggi, trascorso tanto tempo, i fedeli non sembrano più vivere la tensione delle origini.
«Ed è un grande male. Un Cristianesimo che non attende, che non parla del Giudizio, rischia di essere autoreferenziale e consolatorio. Sono la disperata speranza e l’inquietudine per l’arrivo di Cristo a rendere autentica la vita del credente. È vero, è trascorso tanto tempo, ma per il Signore un millennio può valere un giorno e un giorno durare mille anni».
Qual è l’immagine dell’Apocalisse che le piace di più?
«Trovo di una creatività teologica straordinaria quella dell’Agnello. Rappresenta Gesù: Giovanni ce lo mostra ferito, è la vittima sacrificale. Ma non appena viene aperto il primo dei sette sigilli, ecco comparire in cielo un’altra immagine del Cristo, il cavaliere dell’Apocalisse che guida la riscossa contro il maligno: la vittima diventa vincitore, il debole esegue la suprema condanna».
Un Dio vendicatore impietoso...
«Penso ad Adorno, un filosofo che mi ha affascinato fin da giovane: diceva che persino di fronte a una società senza classi, ove regni la più perfetta delle armonie sociali, ci vorrebbe comunque un evento che restituisse la giustizia anche a tutte le generazioni passate! E comunque nell’Apocalisse si legge che se qualcuno non sarà iscritto nel libro della vita, allora verrà castigato. Ecco, tutto si gioca su quel "se", che lascia aperta la porta alla misericordia di Dio».
Lo stagno di zolfo e fuoco è una potente immagine dell’inferno?
«Sì, è il luogo in cui vengono gettate la bestia e il falso profeta, le figure sataniche. Ma per gli uomini il destino è ancora aperto: il profeta ci mostra l’Agnello di Dio, tocca a noi decidere come prepararci al suo ritorno. Su questo l’Apocalisse è chiarissima: non ci è rimasto molto tempo».