Corriere della Sera – 07/09/2013
Intervista a Enzo Bianchi di Roberta Scorranese
Bianchi: «In quel fulgore c’è trasfigurazione» Le immagini russe come religione primitiva.
Nell’ottobre del 1911, Ilya Ostroukhov, pittore e direttore della galleria Tretiakov di Mosca, prese carta e penna e scrisse a D.J. Tolstoy, l’allora curatore dell’Ermitage di san Pietroburgo. Scelse accuratamente le parole: «Caro amico, Henri Matisse è qui. Mi sembra profondamente colpito dalle icone. Pare sopraffatto: trascorre tutto il giorno in visite frenetiche a chiese e monasteri».
Non sbagliava: il pittore francese era da poco arrivato in Russia ed era stato letteralmente travolto dallo splendore di quei Cristi dolenti, da quegli angeli che affioravano da sfondi luminosi. Ostroukhov (artista anch’egli) aveva visto giusto in quella frenesia quasi mistica: non era affascinato, Matisse era proprio sopraffatto.
Quelle raffigurazioni sacre erano state pensate per questo: travolgere lo spettatore, trascinarlo in un’altra dimensione, stordirlo con la luce dell’oro, lo splendore dei contrasti. Come sottolinea Enzo Bianchi, priore del monastero di Bose (che anche quest’anno ha promosso un convegno dedicato al dialogo con l’ortodossia): «Pur se ci sono radici comuni con l’iconologia cattolica, quella delle icone russe o slave è una natura diversa. Un invito non tanto alla contemplazione di un volto santificato, ma di un corpo trasfigurato».
Corpo. Carne. Ecco la radice di questa forza segreta che sta dietro le immagini dipinte da Rublev e da altri grandi artisti del Tre-Quattrocento.
«Carne — continua Bianchi — perché qui non si teme il corpo, anzi, il corpo diventa la rivelazione della Verità. E all’oro spetta il compito di rappresentare questa trasfigurazione».
Il Priore di Bose cita ad esempio la «madre» di tutte le icone, la Trinità di Andrej Rublev, quella straordinaria composizione dei tre angeli posti a formare un cerchio perfetto immerso nella luce.
«Se guardate attentamente questa e altre icone simili —afferma — vedrete che l’armonia non nasce tanto dalla disposizione delle figure, quanto dalla luce costruita come un’architettura».
C’è una primitiva immediatezza in queste immagini, che lo stesso Matisse ebbe ad annotare e a riportare in molte delle opere successive al 1911. Si pensi solo ai colori brillanti del celebre «I pesci rossi » o alla ieraticità di figure come «Zorah sulla terrazza» (1912). Se il filologo Vittorio Strada ha parlato di «irripetibile freschezza di gioioso stupore», questo si deve in gran parte a quell’effetto sempiterno che esercita l’oro nell’occhio di chi guarda, come di un richiamo archetipico allo splendore, alla nascita al magico «E luce fu».
Bianchi continua: «La stessa tecnica delle icone è stata per lungo tempo un’arte sapienziale tramandata gelosamente». Delicatissima: dalla scelta del legno (pioppo, faggio e altri tipi di albero, perché poi ciascuna manifattura era da associare a una zona russa precisa) a quella dell’impasto per i colori (i pigmenti polverizzati venivano sciolti in acqua con il rosso dell’uovo).
Dopo il Quattrocento, l’arte delle icone conobbe un periodo di declino, dovuto anche all’affermazione delle riforme in senso «europeizzante» di Pietro il Grande, strada che privilegiava la pittura di genere e i paesaggi. Poi, tra Sette e Ottocento, la grande riscoperta, fino a tutto il secolo scorso. Persino pittori come Malevich e Natalia Goncharova si ispirarono a quella che Matisse definì «la fonte prima delle ricerche artistiche » per la pittura moderna.
Il Priore di Bose ricorda come l’arte è stata spesso punto di congiunzione tra le cristianità. «Oggi il dialogo è profondamente migliorato rispetto agli anni addietro. Certo, restano differenze a seconda delle varie chiese, con quella rumena, per esempio, qualche volta è accidentato. Ma conoscere e apprezzare l’arte che è scaturita dalle varie convinzioni religiose, resta un momento importante. Serve anche a capire che le radici sono comuni».
Infatti, nella semplicità e nell’«immediatezza » delle icone, alla fine si ritrova una purezza francescana che fa da anello di (ri)congiunzione tra le religioni, come se queste facessero un giro largo, contorto, per arrivare poi allo stesso punto di partenza.