Osservatore Romano - 26-27 maggio 2017
dialogo di Enzo Bianchi con Antonella Lumini
«Al termine del giorno», incipit dell’inno di compieta, è divenuto il titolo dell’ultimo libro di Enzo Bianchi (Al termine del giorno. Parole per illuminare il viaggio interiore, Magnano, Edizioni Qiqajon, 2017, pagine 291, euro 15), titolo chiaramente allusivo al concludersi del suo servizio di priore della Comunità monastica di Bose da lui stesso fondata:
«Quello che ho donato alla mia Comunità e agli ospiti presenti a Bose, lo dono nuovamente adesso a un uditorio più ampio e lo dono ai miei fratelli e alle mie sorelle, nell’ora in cui lascio il mio servizio di comunione ».
Il libro raccoglie le riflessioni offerte ogni domenica sera a conclusione della liturgia delle ore, commentando la Regola di san Benedetto. Ne esce uno spaccato vivo della vita monastica che permette di entrare nell’intimità di quella forma di relazionalità comunitaria che, nei secoli, ha tentato più di ogni altra di mettere in pratica la koinonìa delle origini in cui i credenti «stavano insieme e tenevano tutto in comune» (Atti 2, 44). Rinuncia quindi alla proprietà privata dei beni materiali, ma soprattutto rinuncia alla propria volontà attraverso la rigorosa obbedienza a una Regola. Da Pacomio a Basilio in Oriente, a Benedetto in Occidente, si affina la messa a punto di quello stile di vita a cui richiama il vangelo. Tuttavia, osserva
Bianchi, «le insidie sono molte e il proprium habere prende molte forme in noi». Il libro mette a fuoco i cardini portanti che sostengono la vita cenobitica, insieme, come evidenzia il sottotitolo, offre «parole per illuminare il viaggio interiore», costituendo un supporto utile per tutti coloro che siano alla ricerca del senso della propria vita.
Centrale l’ascolto: «La vita cristiana, e quindi la vita monastica, è innanzitutto ascolto». Ascolto di una voce che chiama, di una parola che giunge al cuore. Per ascoltare occorre «abitare il silenzio, sostare in esso» e imparare la taciturnità dalla quale «dipende sia la qualità dell’ascolto della voce di Dio, del Maestro interiore, sia della comunione con i fratelli e le sorelle ».
Nella vita fraterna, gli ostacoli maggiori derivano dalla mormorazione, per questo nel monastero il silenzio viene custodito non solo nella notte, ma nel corso di tutta la giornata. Dall’ascolto scaturisce l’obbedienza, obbedire significa restare in ascolto (latino: ob-audire). Non stare in ascolto provoca quindi disobbedienza. Si può cogliere allora nel titolo anche un rinvio a quel versetto della Genesi in cui Dio, passeggiando nel giardino «allo spirar del giorno», chiama Adamo e gli chiede: «Dove sei?» (Genesi 3, 8-9). Lo spirar del giorno allude all’emergere del buio in una realtà in cui è solo vita e luce.
Ed è proprio intorno a questo passaggio dalla luce del giorno, alla tenebra della notte, che ruotano queste ammonizioni proferite nell’ora di compieta, in cui la luce è Cristo, «splendore eterno di Dio Padre» e la tenebra uno stato di smarrimento e lontananza. C’è una distanza che separa dalla vita eterna che chiede di essere consumata. La vita cristiana è un invito ad attraversare consapevolmente la distanza costituita dalla tenebra della morte spirituale.
Bianchi soffermandosi sull’espressione «nulla anteporre a Cristo» affinché «egli ci conduca tutti insieme alla vita eterna» (Regola di san Benedetto 72, 12), dice: «Ecco il télos che sta davanti alla nostra vita: la vita eterna». L’esperienza monastica, proprio in quanto pone la vita eterna come proprio orizzonte, favorisce la crescita umana il cui compimento è la divina umanità di Gesù. Mettendo Cristo al centro i monaci intraprendono il loro cammino terreno come continuo tempo di conversione.
«Con il termine conversatio Benedetto voleva parlare di conversione, una conversione da innestare nella propria vita come qualcosa di dinamico, di incessante. Il monaco non ha mai finito di convertirsi ». Questo inarrestabile dinamismo di conversione consuma la distanza, consuma il buio della morte, consente di partecipare alla vita eterna. Dinamismo operato dallo Spirito santo che libera dalle schiavitù e scioglie il cuore aprendolo all’amore perché «la vita eterna è la vita in cui regna soltanto l’amore». L’amore si conosce per diretta partecipazione. Solo amando Gesù e lasciandosi amare dal suo amore si
impara ad amare i fratelli e le sorelle, cominciando così a gustare la vita eterna proprio nella vita terrena.
Bianchi tiene a precisare che «quando diciamo Cristo, non possiamo dire un Cristo che noi ci siamo creati (...) che finisce per essere un idolo», ma quello trasmesso dai vangeli amato e incarnato, «il Cristo che è il vangelo fatto carne, il vangelo vissuto ». Ma il vangelo è incarnato dove l’umanità fiorisce, dove c’è un cammino di umanizzazione. È necessario stare alla presenza di Dio, coram Deo, «seguire il difficile itinerario di maturità cristiana che porta a sentire Dio dentro di noi. Noi siamo il “tempio di Dio” (1 Corinzi 3, 16), siamo l’edificio dello Spirito (1 Corinzi 6, 19), ma per percepirlo dobbiamo percepire che Dio è presente dappertutto».
Trasformare il vangelo in vita vissuta richiede quella lotta interiore che caratterizza il monachesimo sin dalle origini, è far agire la forza del battesimo, aprirsi all’azione dello Spirito santo. Mettere davanti a Cristo le passioni, le concupiscenze, gli illusori desideri perché la lotta più faticosa è quella contro l’egoità e le potenze psichiche annidate nell’anima. La luce dello Spirito non combatte, penetra, smaschera, spoglia. Il processo di purificazione intensifica la comunione con Cristo sviluppando rapporti di comunione.
Il servizio diviene allora atto di amore, «al contrario senza questo servizio, l’amore quando c’è resta psichico, emozionale», non dà testimonianza del comandamento nuovo. Stare alla presenza dello Spirito santo trasfigura. La sua luce s’irradia sul volto del monaco: «Volto di un uomo unificato, di un uomo disarmato (…), il suo sguardo è penetrante ma trasparente, non possessivo: il suo occhio sa fissare senza catturare, senza offendere, e narra compassione, dolcezza, simpatia».
La comunità dunque sviluppa rapporti di comunione quando i suoi componenti sono profondamente radicati in Cristo e nel suo santo Spirito. Più cresce la comunione con Cristo, asse verticale, più cresce la comunione con i fratelli e le sorelle, asse orizzontale. Queste sono le coordinate che rendono possibile l’assunzione della Regola come mezzo di trasformazione spirituale.
Se invece diviene solo osservanza, atto di volontà, può stimolare la superbia, rafforzare l’ego. Il cuore si inaridisce, si spegne la carità fraterna, l’amore vien meno. Essenziale quindi l’umiltà, quella disponibilità a discendere accettando ogni sorta di umiliazione. La vita interiore richiede passività, cedimento della volontà, solo a tale condizione l’opera dello Spirito santo diviene efficace perché non trova ostacoli, ma canali aperti.
Se dunque la comunità monastica è «il luogo per eccellenza dove esercitarsi con gli strumenti dell’arte spirituale» e in cui maturano relazioni di comunione, la crisi che il monachesimo sta attraversando per mancanza di vocazioni, pone seri interrogativi.
C’è una crescente domanda di spiritualità che non trova risposta all’interno degli ambiti tradizionali e che troppo spesso finisce per rivolgersi verso pratiche di altre religioni. È molto importante accettare il confronto, sia valorizzando, come a Bose, la grande tradizione spirituale di cui la Chiesa è custode, sia cercando di comprendere quale possa essere la chiave del cambiamento. Come traspare anche da certi passaggi del libro, la forma troppo legata al rigore, a una visione eccessivamente mortificante del corpo, non corrisponde più alla sensibilità spirituale di oggi.
Dietro questa domanda emerge il grande bisogno di un rapporto diretto con Dio, intimo. Solo uomini e donne che sperimentano il cammino interiore possono divenire riferimento per altri. La Regola è importante come strumento, ma la forma non può sostituirsi alla sostanza, il piano normativo non può prevalere sull’azione dello Spirito santo la cui modalità invita all’abbandono usando pazienza, dolcezza, misericordia, come i ritmi della maturazione spirituale richiedono.
C’è quindi da aspettare con fiducia che quanto è in gestazione e che interpella trovi sempre forme nuove per venire alla luce: «Impariamo ad amare Cristo come vangelo, questo vangelo che attraversa i secoli e non cessa mai di essere vivo: a volte è brace sotto la cenere, sembra essersi spento (…) tuttavia poi risorge, basta che qualcuno lo cerchi come si cerca il fuoco sotto la cenere, ed ecco che di nuovo presente, il vangelo divampa».