L' Eco di Bergamo - 20/10/2019
Intervista a Enzo Bianchi di Alberto Bobbio
Enzo Bianchi. Un alimento diventa cibo nel momento in cui lo si condivide, perché qualcuno lo dona, lo prende dalla natura, lo prepara e lo offre. È il gesto della madre che offre il seno con il cibo del latte. Nella spettacolarizzazione dei fornelli questo sparisce: gli alimenti non hanno tavola, è un cibo che resta lì senza intorno nessuno.
Credo che il cibo è finito nella deriva dello star-system e la spettacolarizzazione dei fornelli a qualunque ora in televisione è diventata una nuova forma di pornografia».
Enzo Bianchi, fondatore e primo priore della Comunità di Bose, non ci sta e soffre a vedere ridotta l’arte della cucina a gesto di puro consumo. E porta la riflessione al limite, un incomodo per stimolare una conversione che torni all’origine.
Dice: «Non c’è cibo senza la tavola, perché solo la commensalità restituisce la dimensione sociale del gesto alimentare ».
Invece nell’orgia della cucina in tivù cosa si perde?
«La condivisione che è la logica finale per cui si cucina. Qui si ammira soltanto. Siamo di fronte ad un consumo virtuale e visivo che segue le leggi proprie della pornografia, non ho alcun timore a dirlo. Tutti vogliono vedere e consumare con gli occhi queste ricette, ne provano un piacere che non ha finalità alcuna, perché le ricette della tivù non verranno mai eseguite a casa, sono percorsi impossibili per chi fa una vita normale, ha una famiglia normale e deve preparare il cibo in modo serio, veloce e naturalmente buono».
La televisione può aiutare la cultura del cibo?
«Potrebbe, ma fin qui ha dato prova negativa. L’educazione che propone è quella del cibo come consumo, più virtuale che reale. È lo specchio della società individualista di oggi e impone un rapporto deformato con il cibo. Esattamente come la pornografia che fa uso di immagini volgari per stimolare reazioni personali false, perché senza relazione. La dinamica sottesa a queste trasmissioni è la stessa. Per cui c’è da vergognarsi a trattare il cibo in questo modo».
Eppure sono trasmissioni molto seguite, con un pubblico molto ampio.
«Per questo motivo mi permetto di sottolineare che sono assai dannose. Portano all’ossessione per i fornelli, alla mania per la ricetta impossibile. Arrivo a dire che impongono un uso non appropriato della cucina, che non aiuta né il consolidamento di una cultura del cibo, né un cammino di umanizzazione del cibo».
In che senso?
«Un alimento diventa cibo nel momento in cui lo si condivide, perché qualcuno lo dona, lo prende dalla natura, lo prepara e lo offre. È il gesto della madre che offre il seno con il cibo del latte. Il cibo è molto più che nutrimento. Nasce da un rapporto di giustizia: prendere ciò che è necessario e fondamentale,non sprecare e condividere. Tutto questo in televisione sparisce, viene dimenticato. Gli alimenti preparati in modo brillante e spesso bizzarro restano a metà del guado. Non hanno tavola. È un cibo che resta lì senza intorno nessuno».
Cioè il buon cibo è la buona tavola?
«Esattamente. Se manca la tavola, cioè le relazioni, non c’è buon cibo. Mangiare è il gesto sociale per eccellenza. Il cibo è il segno per una comunità che si ritrova. Si dice “chiamare alla tavola” e a volte si suona anche una campana così la comunità corre a sedersi. Il cibo è la condivisione degli alimenti, mangiare è molto di più che nutrirsi. Il cibo, cioè la trasformazione degli alimenti, insomma la cucina, è ciò che ha dato agli uomini la possibilità di parlare seduti attorno ad una pietra, di darsi un appuntamento, di gioire insieme e insieme di elaborare qualcosa, narrazioni, significati».
Qualcuno dice che l’arte del vivere e la sapienza possono essere rappresentate con l’arte del mangiare e del bere. È così?
«Certo. Al punto di rivestire perfino un carattere sacro. Pensiamo ai pasti sacri dell’antichità o ai sacrifici nei templi. Io dico sempre, con forza, che i cristiani dovrebbero percepire l’esistenza di un vero e proprio magistero del cibo, che poi è il centro della fede dei cristiani, perché l’Eucarestia non è altro che consumare cibo attorno ad una tavola insieme alla comunità».
La Bibbia è infatti piena di banchetti e di pranzi.
«Cene sono a decine dalle prima pagine fino alle ultime. Melchisedek offre pane e vino ad Abramo nella Genesi, poi i pasti del popolo di Israele nel deserto, i moltissimi pranzi del Vangelo di Gesù dalla nozze di Cana in avanti, l’ultima cena, il pranzo dei discepoli di Emmaus, quelli degli Atti degli Apostoli. Mangiare o meglio cibarsi e cucinare non è un atto che si esaurisce, come nel boom delle nostre trasmissioni televisive. C’è sempre una tavola, perché il cibo fa la tavola e la tavola celebra il cibo. Può essere anche un tappeto steso nel deserto,ma è sempre un luogo di incontro,un luogo dove prendere posto insieme ad altri, luogo di convivialità. Non per nulla si dice “passiamo alla tavola”. Per questo non si può parlare di cibo senza parlare di tavola».
Oggi si è perso il senso della tavola?
«Sì, per via della fretta. Il cibo è buono se lo Consumiamo bene insieme ad altri, che è anche un modo di ringraziare chi lo ha preparato con cura. Per mangiare interrompiamo il lavoro, facciamo una pausa. Oggi non siamo più abituati all’incontro fisico,ma solo virtuale. È una metafora quella del cibo, che conduce ad una riflessione amara: non siamo più abituati a credere insieme e a sperare insieme».
Il cibo come idolo vuoto o come un nuovo vitello d’oro?
«Peggio, oserei dire. Perché il vitello d’oro aveva in qualche misura la volontà o la pretesa di riferirsi a qualcosa a cui andava un riconoscimento. Oggi è solo una questione di consumo e di sfoggio vuoto di qualcuno che mostra delle cose. Ma poi finisce lì. In televisione non c’è cultura del cibo. C’è solo la sfida, la concorrenza, un linguaggio non rispettoso, non mite, non cordiale. Il cibo è un idolo. La sua preparazione soddisfa solo le proprie voglie, in antagonismo con altri. Il percorso è solo dal desiderio alla soddisfazione personale, mai comunitaria».
Perché la preparazione del cibo è una pratica sociale?
«Il cibo non è solo frutto della terra. È anche il frutto del lavoro dell’uomo. La cultura di una comunità presiede alla cucina. Preparare e consumare cibo è un po’come stipulare un contratto, riconoscere gesti, alleanze, idee, prossimità, costruire qualcosa, trasformare ciò che offre la natura secondo regole di relazione, dare origine a qualcosa d’altro».
Si può fare un esempio?
«L’acqua. Non è solo una bevanda,ma uno strumento per la cucina. È importante come la si usa e ciò dipende dalla cultura. Stessa cosa per il fuoco perché passare da crudo a cotto è un’operazione culturale. La preparazione del pasto è per questo motivo una pratica sociale. Comunica i sentimenti e la cultura di chi lo prepara,ma essi diventano significativi e decisivi sulla tavola. Preparare il cibo fa incontrare le persone. A me capita di provare grande soddisfazione quando in silenzio insieme ad un altro mi trovo a pelare le patate. Sembra un atto da niente,una preparazione semplice, il pelare le patate. Eppure con quel gesto abbiamo la possibilità di incontrarci, di stare con altri, anche senza parole. Può essere un’esperienza spirituale».
Oggi invece le ricette e i ricettari sono troppi e troppo fantasiosi?
«Sì e si rischia di saturare l’orizzonte. La misura è un concetto che va considerato, anche per rispettare la storia di ognuno. La valanga di ricette con cui la televisione ci travolge ogni giorno, la creatività, la contaminazione di ogni cosa possibile, rischia di far perdere la bussola alla nostra storia personale. Il cibo, ogni piatto, ci ricorda qualcosa, è l’anamnesi delle nostre storie e della nostra famiglia. Io amo la cucina tradizionale e sono un tradizionale in cucina. Vengo dal Monferrato,ho avuto una nonna cuoca e un nonno panettiere, cultura del cibo del Monferrato francese. Cucinare e mangiare ci ricorda sempre qualcuno,un tempo dell’infanzia, un incontro. Certamente la cucina si rinnova e ha anche il diritto di mischiare e di osare, utilizzare apporti di altre terre e altre cucine e dunque culture. Ma farlo così, semplicemente per provare, per rappresentare novità ed esaltare competizione, per dire che l’insolito è bello, che solo il differente paga, allora è meglio fare un passo indietro, perché il cibo diventa solo occasione accademica poco virtuosa».
Torniamo al cibo come idolo …
«L’idolo vero è il consumo, il dogma della crescita di ogni cosa solo per la propria soddisfazione, per la ricerca della propria felicità. Il cibo fa salire lo share, i fornelli sono lo strumento di un nuovo star system. Il cuoco si trasforma in chef, quasi nel guru di una nuova religione dove conta l’individuo e il suo appagamento personale e non più quello della comunità. Per questo insisto e dico che abbiamo perso la tavola. E il cibo porta all’alienazione da competizione, perde il suo valore di strumento comunitario».
Quali sono i paradigmi di una «cibosofia» positiva, di una buona filosofia del cibo?
«Rispetto e condivisione. Rispetto vuol dire anche non sprecare, vuol dire riconoscere il lavoro di chi produce e la sostenibilità ecologica e sociale, vuol dire organizzare mercati equi, vuol dire non rapinare la terra. Condivisione è equivalente di convivialità e di giustizia. Il cibo è tale se viene condiviso. E se manca la tavola tutto è inutile».
Lei ha scritto un libro sull’ingordigia, un peccato che non si confessa più …
«L’ingordigia o quella che una volta veniva chiamata “la gola” diventa peccato non quando si gustano con piacere le pietanze,ma quando esse si consumano solo con l’occhio alla novità, all’originalità, all’insolito, allo straordinario. Insomma non c’è altro sapore che l’inaudito. Questo rapporto deformato con il cibo io lo chiamo ingordigia, perché non ci fa vedere altro se non la nostra voracità, il nostro folle desiderio di competere, senza tener conto dello spazio che dobbiamo riservare alla giustizia, alla bontà e alla bellezza del cibo spezzato con gli altri, attorno a quella pietra dove gli uomini hanno imparato a mangiare e a parlarsi e per questo sono diversi dagli animali. Ecco perché nel Padre nostro non sta scritto“dammi oggi il mio pane quotidiano”,ma “dacci oggi il nostro pane”. La cucina autentica e non virtuale è quella che imbandisce tavole per tutti».