La Repubblica - 06 settembre 2021
di Enzo Bianchi
Adesso arrivano e arriveranno soprattutto dall’Afghanistan: sono quelli che riescono a fuggire dall’oppressione e dalla violenza, sono i profughi in cerca di una vita nella libertà, e per noi sono immigrati che sognano un lavoro e una casa nel nostro paese. Da venticinque anni circa arrivano a ondate da terre di guerra o di fame e ci chiedono ospitalità destando diverse reazioni da parte nostra.
Siamo così invitati a rinnovare l’ospitalità, che significa “ricevere presso di sé” ma anche un inizio di nuove relazioni, accoglienza che implica apertura e generosità. Non dovremmo mai dimenticare che da “ospitalità” derivano “ospedale”, luogo per la cura dei malati, e “ospizio”, luogo per dare aiuto e riparo a viandanti, poveri, stranieri. Nel nostro quotidiano l’ospitalità si impone sempre come accoglienza dell’altro, e oggi ci appaiono come figure eminenti dell’alterità soprattutto lo straniero, il rifugiato, il migrante, come nel passato lo erano l’orfano, la vedova e il povero: i senza dignità!
L’ospitalità infatti riguarda la relazione io-tu, l’incontro con l’altro che disorienta, che è sempre una minaccia alla centralità della mia persona o del mio gruppo di appartenenza. Per questo Sartre poteva affermare: “Gli altri? Sono l’inferno!”. Ma per gli umani gli altri in realtà sono la salvezza, la vita, la fecondità, e certo assegnano a ciascuno di noi una responsabilità perché quando li si avvicina si diventa consapevoli che il loro volto è domanda, è vulnerabilità, è un appello a rinunciare alla violenza. Paul Ricoeur insisteva nell’affermazione che l’altro è costitutivo del sé e che “noi dobbiamo considerare noi stessi come gli altri!”. È il nostro destino, sempre segnato dalla presenza dell’altro fin dalla nascita, fin da quando con dolore scopriamo la presenza dell’altro in competizione con noi per l’amore dei genitori e dobbiamo imparare a fargli posto.
Resta significativo che nel mondo mediterraneo dell’antichità l’ospitalità (xenía) verso lo straniero fosse considerata la “grande virtù”, con la creazione di un vero e proprio codice dell’accoglienza; dal saluto iniziale, nello stupore di chi sa che in questo modo si può anche accogliere un dio, a una serie di gesti: accompagnare per mano l’ospite alla casa, fornirgli acqua perché si possa lavare i piedi, preparargli un pasto e un alloggio per la notte. Accogliere sconosciuti, stranieri, mendicanti era vista come possibilità per accogliere gli dèi o gli angeli. Nel cristianesimo, come nell’ebraismo, l’ospitalità dello straniero ha sempre avuto una portata teologica perché nel volto di chi viene accolto è Dio stesso a rivelarsi in incognito.
Così commenta il precetto dell’accoglienza il grande Jonathan Sacks: “La persona che vede Dio nel volto dello straniero è più grande di chi vede Dio in un’apparizione! Perché dai giorni di Abramo compito nostro non è salire in cielo ma far discendere il cielo sulla terra nei gesti semplici di ospitalità e di amicizia”.
Come mai allora molti cristiani ostili e diffidenti verso i migranti rivendicano le radici ebraico-cristiane come nostre? Le conoscono davvero o molto semplicemente le ignorano?