Un libro del domenicano Adrien Candiard in un mondo che sembra sfuggire al nostro controllo
La Stampa - 20 settembre 2021
di Enzo Bianchi
Da anni ormai vivevamo in un tempo posto sotto il segno della crisi, in primo luogo economica ma anche ambientale e culturale, ma da quando la pandemia ha fatto irruzione nelle nostre esistenze si è aggiunto un forte senso della precarietà del presente e dell’incertezza del futuro: viviamo in un tempo in cui l’incognito che ci sta davanti spaventa per la sua imprevedibilità e, insieme, per gli orizzonti asfittici che lo caratterizzano. Il nostro è un «mondo in fuga» (Anthony Giddens), un mondo che sembra sfuggire al nostro controllo e impedirci di capire dove stiamo andando. Questa situazione provoca un’angoscia profonda, che pare confermata anche da un rapido sguardo alle situazioni di guerra, migrazione, miseria e oppressione in atto in varie parti del mondo.
Non va d’altra parte dimenticato che questo è anche il tempo abitato da chi, come tanti uomini e donne della mia generazione, ha vissuto una grande stagione di speranza umana e cristiana; oggi, però, le ideologie politiche per alcuni e le utopie sociali per altri sono venute meno, mentre le attese destate nei cristiani dal rinnovamento della chiesa che fu il Vaticano II appaiono in massima parte frustrate. Le speranze in un mondo più segnato da pace e giustizia, in una chiesa più evangelica, sembrano smentite; al contrario, nel nostro vissuto quotidiano siamo costretti a subire, con una certa impotenza, il dilagare della barbarie, che invade anche la sfera privata: la banalizzazione dei temi della giustizia e della legalità, la giustificazione dell’ineguaglianza, la glorificazione del più forte, il rifiuto di ogni orizzonte comunitario, l’esaltazione della competizione selvaggia, la legge della forza che si sostituisce alla forza della legge, e si potrebbe continuare a lungo
Se questa è l’aria che respiriamo, non può che suonare come coraggiosa e, in un certo senso, drammatica, la domanda che con fatica si apre un varco nei nostri cuori: che cosa posso, che cosa possiamo sperare? Più precisamente, il problema non si riduce alla semplicistica scelta tra sperare e disperare, o – peggio – tra essere ottimisti e pessimisti, bensì alla necessità di trovare fondamento alla speranza, così da giungere alla consapevolezza di che cosa si può realisticamente sperare, qui e ora.
Non sorprende dunque che negli ultimi mesi siano apparse diverse pubblicazione sul tema della speranza: penso in particolare ai saggi di Eugenio Borgna, Speranza e disperazione e di Giuseppe Goisis, Speranza. Ma un testo in particolare ha attirato la mia attenzione, quello di Adrien Candiard, La speranza non è ottimismo. Note di fiducia per cristiani disorientati (EMI). Il giovane domenicano francese – che descrive il malessere generale e la sfiducia diffusa prendendo a prestito l’espressivo anglicanismo di Jean-Paul Delevoye “born out della nostra società” – si domanda “che cosa potrebbe mai aggiungere la speranza, in tempi di disperazione come i nostri?”, ben sapendo che “la speranza vera è il contrario dell’ottimismo”. Il merito di Candiard è di rivolgersi con forza ai cristiani ricordando loro che sono portatori di una speranza e che il loro ruolo è ridare una speranza al mondo. Il domenicano costata che in una società depressa, in un cristianesimo frantumato e in una chiesa in grosse difficoltà anche i credenti faticano a sperare fino a subire la tentazione di cedere all’illusione. La domanda posta al profeta Isaia, “Sentinella quanto resta della notte?”, è la stessa inquieta domanda che senza saperlo il nostro mondo pone ai credenti; un mondo che per Candiard “ci interroga sulla nostra speranza, e non attende da noi discorsi rassicuranti, teorie tranquillizzanti che provino che domani andrà tutto meglio; il mondo attende da noi che viviamo nella speranza, che noi viviamo per quello che conta davvero e che non passerà mai”.
Se da sempre mi sono esercitato a riflettere sulla speranza, oggi sono persuaso che ciò che caratterizza alla radice la speranza di ogni essere umano, credente, non credente o diversamente credente che sia, è anzitutto la consapevolezza che la speranza non va da sé, ma si situa nello spazio della scelta, della faticosa decisione; se la fede è un dono che si riceve, la speranza è una decisione personale che impegna lo sforzo della propria volontà. Occorre decidere di sperare, concepire una decisione che genera la speranza e la fa nascere: solo iniziando concretamente a sperare si può accrescere la speranza!
Sì, la speranza nasce quando si prende posizione riguardo al futuro, quando si pensa che un avvenire sia ancora possibile per un individuo, per una società, per l’umanità intera: si tratta di vedere oggi per domani, di credere oggi possibile ciò che si compirà domani. Scegliere di sperare significa decidersi per una responsabilità, per un impegno riguardo al destino comune, significa educare le nuove generazioni trasmettendo loro la capacità di ascoltare e di guardare l’altro: quando due esseri umani si ascoltano e si guardano con stupore e interesse, allora la speranza può nascere e crescere.
C’è però un dovere che i cristiani hanno nei confronti dell’umanità intera e di ogni essere che vive, il dovere dei esercitarsi a sperare per tutti. La chiesa dunque non può sperare solo per se stessa, né può inculcare ai cristiani alcun particolarismo nella speranza della salvezza, perché la sua speranza è posta al servizio di tutti: i cristiani sono chiamati a sperare per tutti gli umani, giusti ed empi, buoni e malvagi, intelligenti e insipienti; di più, sono chiamati a sperare per tutte le creature, animate e inanimate, fino a desiderare la trasfigurazione di tutta la creazione. “Chi non spera l’insperabile, non lo troverà”, sentenziava Eraclito.