Il Blog di Enzo Bianchi

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​Fondatore della comunità di Bose

Omelia del 1° gennaio 1968

02/03/2022 23:00

Giacomo Lercaro

Testi di Amici 2022,

Omelia del 1° gennaio 1968

di Giacomo Lercaro

di Giacomo Lercaro

Figli dilettissimi, popolo di Dio della nostra santa Chiesa bolognese,

 

Nella odierna Eucaristia celebriamo l’ottavo giorno dalla nascita del Salvatore: come ci ha detto or ora l’Evangelo: «quando cioè furono compiuti gli otto giorni per la circoncisione del Bambino, fu circonciso e chiamato Gesù». Secondo l’ordine dato da Dio ad Abramo (Gen 17,9–14), rinnovato a Mosé nell’Esodo (Es 12,44; cfr. Lev 12,3) la circoncisione era per tutte le tribù d’Israele il segno della alleanza con Dio, e per ognuno in particolare, il segno della appartenenza al popolo eletto, la condizione per partecipare alla santa assemblea e per comunicare alla salvezza nella Pasqua del Signore.

 

Ma in Cristo circonciso il segno si concreta e il simbolo diventa realtà, e non più soltanto per un popolo, ma per l’intero genere umano. Il primo sangue versato dal Dio Bambino inizia il sacrificio del Calvario e anticipa il lavacro di «acqua e sangue» (Gv 19,34) che ne scaturirà non più soltanto per la razza di Abramo, ma a riscatto di tutti gli uomini di ogni «razza, lingua, popolo e nazione» come si esprime l’Apocalisse (5,9). Così, la circoncisione del Figlio di Maria, da un lato significa la sua legittima appartenenza al popolo d’Israele; dall’altro anticipa il battesimo cristiano, cioè l’universalità del «sigillo della giustizia della fede», come dice Paolo nella Lettera ai Romani (4,11), nella quale tutti gli uomini – nessuno escluso – potranno essere «circoncisi nel cuore secondo lo Spirito» (2, 29) riuniti in un unico e definitivo popolo di Dio.

 

Dunque, già in questo ottavo giorno del Natale, nel nome di Gesù «viene annunziato un Buon Annunzio eterno a quelli che abitano sulla terra, ad ogni nazione, razza, lingua e popolo» (Ap 14,6). Ed è proprio meditando l’universalità dell’Evangelo di salvezza, che anche noi – secondo il desiderio e il Messaggio del Sommo Pontefice – presentiamo in questo giorno l’appello per la pace rivolto dal Papa a tutti gli uomini della terra. Abbiamo già offerto in questi giorni il Messaggio pontificio ai capi delle altre comunità di credenti in Bologna e alle autorità responsabili delle comunità e delle istituzioni civili. Qui, stasera, in questa Messa episcopale, lo consegnamo idealmente a tutti i fedeli della nostra Chiesa bolognese: a quanti, con noi – secondo la parola dell’Apostolo letta poc’anzi dal lettore – credono che oggi «l’amabile bontà del nostro Dio salvatore si è rivelata a tutti gli uomini».

 

1. La liturgia odierna e il Messaggio pontificio convergono oggi ad illuminare il mistero e l’impegno della nostra unità e pace con tutti gli uomini in Cristo: a farci, dunque, sentire in modo particolarissimo questo come il momento di «rinunziare all’ira, allo sdegno, alla malignità», – sono le parole di san Paolo – il momento di rivestirci dell’uomo nuovo, «nel quale – è ancora san Paolo che parla – non vi è più né greco né giudeo, né circonciso né incirconciso, né barbaro né Scita, né schiavo né libero, ma in tutto e in tutti è Cristo» (Col 3,8 e 11). Perché il nostro anelito e la nostra preghiera di pace per tutte le nazioni possa essere autentica e sincera, occorre che noi, in questa sede, rinunziamo a cercare, a giudicare le cause di divisione e di conflitto che possono venire da altri, ma piuttosto imploriamo dallo Spirito il dono di sapere «esaminare noi stessi, per non essere giudicati» (1Cor 11,31). «Ognuno di noi – dice l’Apostolo – renderà conto a Dio di sé stesso. Dunque non giudichiamoci più a vicenda, ma pensate piuttosto a non mettere inciampo né a dare scandalo al vostro fratello» (Rm 14,12-13).

 

2. Fratelli e figli dilettissimi, vorrei aprirvi tutto il mio animo, confessarmi a voi, davanti al Signore e alla Vergine, della quale la liturgia di oggi con tanta insistenza invoca l’intercessione. Da più giorni, il Messaggio del Santo Padre mi sospinge a scrutare la mia coscienza e la mia vita. Mi chiedo quale è stata la testimonianza di pace mia personale e dell’intera nostra comunità ecclesiale. Mi domando soprattutto fino a che punto possiamo avere talvolta inclinato a vedere solo in altri la causa dei disordini e dei conflitti ed eventualmente a giudicarli come fomentatori di guerra e perturbatori della pace, piuttosto che esaminare noi stessi ed eventualmente preoccuparci di togliere da noi le pietre d’inciampo sul cammino della pace e le ragioni di scandalo, forse inconsapevolmente offerte ai credenti e ai non credenti.

 

3. Miei figli amati in Cristo, vi confesso ancora che del Messaggio che ora vi presento, alcune parole mi sono entrate più a fondo nell’anima, cioè quelle in cui il Santo Padre spiega la sua insistenza nel parlare e nell’operare per la pace: «Vorremmo – egli dice – che non mai ci fosse rimproverato da Dio o dalla storia di avere taciuto davanti al pericolo di una nuova conflagrazione fra i popoli, che – come ognuno sa – potrebbe assumere forme improvvise di apocalittica terribilità». Anche a me, secondo la mia modestissima misura e responsabilità, anche a me, da tanti anni vostro pastore e vostro maestro, voglia il Cielo che non si debba mai rimproverare di avere taciuto qualche cosa che potesse essere essenziale alla valida testimonianza di pace della nostra Chiesa bolognese, nel contesto umano, sociale, culturale in cui essa vive e opera. Perciò non posso ora limitarmi alla semplice consegna del testo del Sommo Pontefice: ma, quasi a suggello e a commento di esso sento di dovere mettere nelle vostre mani i sentimenti più profondi del mio cuore di pastore di questa nostra Chiesa bolognese.

 

4. Io vorrei riempire questa consegna con tutto ciò che ho detto e fatto per la pace in tutta la mia vita: specialmente in questi ultimi anni, nel Concilio, nel governo e nell’insegnamento ordinario in Diocesi, nelle assemblee delle nostre Chiese, nell’aula del Consiglio Comunale e in quelle delle varie istituzioni bolognesi. Vorrei ora, in particolare, richiamare alla mia coscienza e riproporre a voi il discorso in cui, alcuni mesi or sono all’Archiginnasio, ho cercato di esporre i temi principali della dottrina conciliare e della visione biblica sulla pace: penso che quel discorso trovi ora, al di là del previsto, una verifica e una nuova attualità in tutto quello che accade e viene detto da tante parti in questi ultimi giorni.

 

5. Ma soprattutto ora piego le ginocchia davanti al Signore, che giudicherà la mia vita e il mio episcopato, e mi chiedo se quello che ho detto sinora può bastare o se ancora non vi sia qualche cosa da aggiungere, per orientare ancor meglio le nostre anime a pensieri e a opere di pace, proporzionate alla estrema gravità del pericolo e dell’’impegno storico che, variamente ma solidalmente, grava su tutti e su ciascuno. Mi vado convincendo sempre più che il compito della Chiesa a questo riguardo è duplice, consta di due elementi complementari e inscindibili: veramente «occorre adempiere l’uno, senza omettere l’altro».

 

6. Da una parte, la Chiesa non deve stancarsi di diffondere, spiegare e rispiegare l’insegnamento generale cristiano sulla pace; deve anzi approfondire ancora più le radicali esigenze del Vangelo circa la rinunzia alla violenza; deve formare le coscienze; soprattutto deve metodicamente guidare i credenti e rispettosamente aiutare i non credenti a ricomporre in sé stessi quella pace personale e interiore che l’uomo moderno poco conosce e «che è – secondo le parole di Paolo VI – la radice profonda e feconda della pace esteriore, politica, militare, sociale, comunitaria» (Discorso di Natale).

 

7. Dall’altra parte, la Chiesa non deve far mancare il suo giudizio dirimente – non politico, non culturale, ma puramente religioso – sui maggiori comportamenti collettivi e su quelle decisioni supreme dei responsabili del mondo, che possano coinvolgere tutti in situazioni sempre più prossime alla guerra generale e che possano, a un tempo, confondere le coscienze proponendo false interpretazioni della pace o false giustificazioni della guerra e dei suoi metodi più indiscriminatamente distruttivi.

 

8. Certo la Chiesa non può né deve assidersi arbitra delle contese politiche fra le nazioni: memore della risposta data da Gesù a chi gli chiedeva di arbitrare la divisione dell’eredità fra due fratelli, la Chiesa deve ripetere agli uomini e agli Stati: «Chi mi ha costituito arbitra o ripartitrice fra di voi?» (Lc 12,13-14). Certo, la Chiesa – per non apparire invadente o parziale o imprudentemente impegnata nell’opinabile e nel contingente – deve affinare sempre più la sua purezza trascendente e il suo distacco da ogni interesse politico e persino da ogni metodo in qualche modo analogo a quelli delle potenze.

 

9. Ma la Chiesa non può essere neutrale, di fronte al male da qualunque parte venga: la sua via non è la neutralità, ma la profezia; cioè il parlare in nome di Dio, la parola di Dio. Pertanto, nell’umiltà più sincera, nella consapevolezza degli errori commessi nella sua politica temporale del passato, nella solidarietà più amante e più sofferta con tutte le nazioni del mondo, la Chiesa deve tuttavia portare su di esse il suo giudizio, deve – secondo le parola di Isaia riprese dall’Evangelista san Matteo (12,18) – «annunziare il giudizio alle nazioni».

 

10. Il profeta può incontrare dissensi e rifiuti, anzi è normale che, almeno in un primo momento, questo accada: ma se ha parlato non secondo la carne, ma secondo lo Spirito, troverà più tardi il riconoscimento di tutti. È meglio rischiare la critica immediata di alcuni che valutano imprudente ogni atto conforme all’Evangelo, piuttosto che essere alla fine rimproverati da tutti di non aver saputo – quando c’era ancora il tempo di farlo – contribuire ad evitare le decisioni più tragiche o almeno ad illuminare le coscienze con la luce della parola di Dio.

 

11. Figli miei, le ultime circostanze mi hanno indotto a ripensare in concreto alle esperienze di guerra attraversate nella mia lunga vita: ancora come bimbo, la prima guerra d’Africa; come chierico, la guerra di Libia e poi come novello sacerdote, quando mi ha sorpreso e mobilitato la Prima guerra mondiale. Ho ripercorso il travagliato itinerario di questi ultimi cinquant’anni e delle diverse guerre in cui si è trovato coinvolto, suo malgrado, il nostro paese. Ho voluto rivedere, con gli occhi di oggi, le singole decisioni supreme del 1915, del 1936, del 1940 che hanno portato tre volte il nostro popolo in guerra. In guerre che nessuna esigenza vitale di sopravvivenza e di giustizia ci imponeva, in guerre che il popolo nella sua maggioranza, non voleva e non sentiva, ma che tuttavia furono intraprese dai governanti per una concatenazione quasi fatale di pregiudizi, di ambizioni, di tragiche leggerezze, di fatalismo, o per il meccanismo incontrollabile delle alleanze impegnate dai capi.

 

12. Ebbene, se ripenso a tutto l’arco di questi dieci lustri, debbo riconoscere che la parola più concreta e incidente, in rapporto alle vicende belliche in cui l’Italia fu coinvolta, fu pronunziata appunto cinquant’anni fa (1917) da Benedetto XV: alludo al suo giudizio che definiva la guerra in corso fra le potenze, una «inutile strage». Quel giudizio – veramente non politico, non diplomatico, ma religioso – fu immediatamente il bersaglio di ogni accusa: ma oggi da tutti si riconosce che quella parola profetica costituisce uno dei titoli maggiori della statura, pontificale e storica, del papa Benedetto.

 

13. E adesso, potremmo facilmente passare da quell’esempio, lontano ma tanto significativo, a un esempio attualissimo. La dottrina di pace della Chiesa (messa sempre meglio a fuoco da papa Giovanni, dal Concilio, da papa Paolo) per l’intrinseca forza della sua coerenza, non può non portare oggi a un giudizio sulla precisa questione dirimente, dalla quale dipende oggi di fatto il primo inizialissimo passo verso la pace oppure un ulteriore e forse irreversibile passo verso un allargamento del conflitto. Intendo riferirmi, come voi ben capite, alle insistenze che si fanno in tutto il mondo sempre più corali – e delle quali si è fatto eco il Papa nel recentissimo discorso ai cardinali – perché l’America (al di là di ogni questione di prestigio e di ogni giustificazione strategica) si determini a desistere dai bombardamenti aerei sul Vietnam del Nord. Il Santo Padre ha detto testualmente: «Molte voci ci giungono invitandoci ad esortare una parte belligerante a sospendere i bombardamenti. Noi lo abbiamo fatto e lo facciamo ancora… Ma contemporaneamente invitiamo di nuovo anche l’altra parte belligerante… a dare un segno di seria volontà di pace».

 

14. La Chiesa, questo lo deve dire, anche se a qualcuno dispiacesse. Lo deve dire perché, a questo punto, è il caso di coscienza immediato di oggi, è il primo nodo da cui possono dipendere le svolte più fauste o più tragiche. In paragone a questo nodo concreto, a questa scelta compromettente, l’attualità odierna dell’Evangelo si verifica, essa può effettivamente attirare e orientare gli spiriti, specialmente delle nuove generazioni, e la sua dottrina di pace non resta teoria evanescente, ma si incarna e può incidere sulla storia degli uomini.

 

15. Figli dilettissimi, tutto questo esame di coscienza e questo confronto più scavato tra l’Evangelo e la problematica più cruciante dell’ora presente, riportano i nostri spiriti alle considerazioni che ci suggeriva all’inizio la liturgia odierna: per la Chiesa e per il cristiano è una cosa tremendamente impegnativa e concreta l’universalità della salvezza donata a tutti gli uomini nel sangue di Gesù, l’unità e la pace fondata fra tutti gli uomini in Cristo, unico Salvatore del mondo. È un mistero tanto trascendente ogni possibile motivo umano di differenza o di disaccordo, tanto imperativo e tanto vincolante, che non ci può essere età della Chiesa o età del mondo che non ne sia del tutto condizionata, dominata con una coerenza sempre più lucida e radicale, man mano che l’umanità procede anche nel suo cammino storico, nelle sue possibilità smisuratamente più grandi di concordia o di conflitto.

 

16. Perciò è sembrato a me, vostro padre in Cristo, di essere debitore – di fronte a voi e ancora di più di fronte ai vostri figli – di un debito che vorrei adempiere sin da questo nuovo anno 1968, almeno predisponendo alcune premesse che altri, secondo il divino beneplacito, porterà a più avanzato sviluppo. Intendo dire che mi sento in obbligo di impegnare me stesso e tutta la nostra comunità ecclesiale – più di quanto sinora non si sia fatto – in un più largo e più approfondito sforzo catechetico per dare ai nostri ragazzi e ai nostri giovani in dimensioni nuove una coscienza evangelica dell’universale fraternità in Gesù, del rispetto assoluto della dignità di ogni uomo redento da Cristo, del rifiuto radicale di ogni forma di violenza, interiore od esteriore, privata o collettiva.

 

17. Dicevo un anno fa che avrei voluto essere sempre più e soltanto un servitore dell’Evangelo, e che avrei voluto ormai lasciarmi incontrare solo col Vangelo sulle labbra e nell’anima da tutto il popolo di Bologna. Ora vorrei precisare: in quest’anno che si inizia col Messaggio del Papa a tutto il mondo, vorrei essere un servo dell’Evangelo di pace, vorrei che tutta la Chiesa di Bologna non fosse altro che un unico generale annunzio dell’Evangelo di pace a tutti, ma specialmente ai giovani, perché tutta la nostra gioventù possa divenire — malgrado tutte le tentazioni, tutti i miti e tutte le compromissioni di guerra — una forza grande, spirituale e storica, nei nostri giorni «operatrice di pace» e perciò, secondo la promessa delle Beatitudini, veramente «figlia di Dio»: «Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio» (Mt 5,9).