Carlo Petrini in dialogo con Carolyn Steel, architetto e scrittrice che ha concentrato le sue ricerche in ambiti come il cibo e le città
di Carlo Petrini e Carolyn Steel
CARLO PETRINI: «Il cibo ha da sempre accompagnato l'evoluzione della specie umana sulla Terra, contribuendo a plasmare la geografia dei territori e i luoghi che abitiamo. La sua rilevanza sociale non si è però limitata solo agli spazi fisici, bensì ha incluso anche quelli più metaforici, ma altresì importanti dell'economia, del commercio e della politica. Con il tempo, e di pari passo con l'industrializzazione e la facilità di reperimento, il cibo è poi diventato un elemento marginale nella vita delle persone, e anche il suo spazio si è andato via via restringendo. Tuttavia, il conflitto in Ucraina e la crisi alimentare ad esso connessa, così come l'emergenza climatica, mettono in luce le conseguenze negative della nostra noncuranza, e ci portano a riconoscere la necessità di rigenerare un rapporto sano con la prima fonte di energia di cui ognuno ha bisogno per vivere. D'altronde siamo vivi perché mangiamo e ci nutriamo e il primo rapporto che dovremmo avere a cuore è dunque proprio quello con l'alimentazione, mentre troppo spesso non la valorizziamo o peggio ancora la diamo per scontata. Alla luce di questa situazione è quanto mai necessario riportare il cibo al centro, definendone lo spazio operativo e il raggio d'azione, per poi prendere decisioni che ci pongano sulla giusta traiettoria per affrontare le molteplici crisi dell'attualità. Questi sono temi a te particolarmente cari, a cui hai dedicato due decenni di studi e che hai ben illustrato nel tuo ultimo libro Sitopia. Come il cibo può salvare il mondo (Piano B, 2021)».
CAROLYN STEEL: «Sono d'accordo con te. Ci sarebbero così tante cose da dire a partire dal fatto che non diamo più valore al cibo, così come trascuriamo la storia: l'importanza dell'Ucraina nella produzione del grano è infatti secolare. La pandemia come la guerra ci espongono al fatto che abbiamo dato le cose più vitali per scontate, e allo stesso tempo mettono in luce le profonde relazioni che ci legano su scala globale. Questo può spronare a un'azione collettiva, ricordandoci della nostra unione di destini come specie umana. Con questa comunanza di minacce potremmo infatti creare una nuova epoca nella governance mondiale, dove il cibo può giocare il ruolo di costruttore di paesaggi, unificatore di persone e fornitore di soluzioni ai nostri problemi globali. Mi spiego meglio: la pandemia così come la guerra non fanno altro che rendere più tangibili e visibili crisi che erano già in atto (la distruzione degli ecosistemi, la perdita di biodiversità, le iniquità del nostro sistema globalizzato). E sebbene le crisi siano preoccupanti e allarmanti, non sono più grandi di ciò che possiamo fare. Mi riferisco alla necessità di ripristinare l'equilibrio tra due relazioni fondamentali: la relazione con la vita e la relazione tra noi esseri umani. Nel fare ciò il cibo deve essere riportato al centro, aiutandoci nella comprensione e definizione di cosa significa vivere una buona vita; anche in virtù del suo potenziale unico e irreplicabile di procurarci piacere e farci sentire meglio. Il cibo dà infatti forma alle nostre vite, ci permette di instaurare una relazione profonda tra noi e il mondo esterno, e ha modellato l'evoluzione della civiltà nel tempo. Basti pensare che fino all'epoca preindustriale nutrire i centri urbani era difficile, soprattutto per questioni legate al trasporto e alla conservazione. Le città erano, dunque, di dimensione contenuta e largamente produttive. D'altronde già Platone e Aristotele sostenevano che l'autosufficienza alimentare era un obiettivo primario della polis; perseguito garantendo l'equilibrio tra contesto urbano e zone rurali. Da questa funzione del cibo di modellazione e definizione degli spazi - non solo fisici, ma anche sociali - sono giunta alla formulazione del concetto di "sitopia": dal greco sitos= cibo e topos = luogo».
PETRINI: «Quanto dici mi fa pensare al fatto che occorre riprendere la strada della sovranità alimentare, che non è un invito all'autarchia come molti erroneamente denunciano. Sovranità alimentare significa ridare dignità alla produzione di sussistenza. Dobbiamo avere coscienza della necessità di rafforzare l'economia locale, perché è lì che si dimostra la partecipazione di tutti i cittadini, si garantisce la difesa dei suoli, del paesaggio, della nostra memoria storica. Questo non è autarchia, bensì un elemento capace di riconferire stabilità ai territori riducendo la dipendenza dall'esterno. Con questo non nego alcune virtù del sistema globale, ma non riesco nemmeno ad accettare che l'orizzonte di azione di tutta la filiera alimentare sia il mondo, e che il parametro di misurazione sia il costo basso. Dobbiamo tornare a ridare il giusto valore ad un cibo che sia sano, nutriente e anche culturalmente appropriato; sottolineando il benefico potere trasformativo che questo può avere per la vita, l'economia e gli spazi».
STEEL: «Penso che innanzitutto dovremmo affrontare una questione etica e morale. L'attuale modello occidentale si basa su un assunto sbagliato che reputa che il cibo debba essere economico. Questo avviene perché nella maggior parte dei casi ciò che mangiamo arriva da lontano, e perché c'è qualcuno che paga per costi che noi nemmeno immaginiamo. Se i governi smettessero di sussidiare le produzioni agroalimentari industriali, e anzi ne internalizzassero i costi sommersi (deforestazione, cambiamento climatico, erosione del suolo, declino dello stock ittico), i prezzi incrementerebbero rapidamente. In poco tempo il cibo industriale arriverebbe a costare tanto quanto quello prodotto in maniera ecologica, o forse addirittura di più. Se dessimo davvero valore al cibo e alla sua dimensione territoriale, potremmo creare nuovi posti di lavoro, e questo consentirebbe a molte persone di uscire dalla povertà. Il settore agroalimentare è infatti ad alta intensità di lavoro che, se valorizzato, può essere estremamente gratificante in quanto ci mette in relazione con la natura, e con la vita. Affinché questo avvenga dobbiamo però sviluppare un rapporto diverso con la tecnologia: non più contro la natura e in sostituzione alle persone, ma in loro ausilio per lavorare la terra in maniera più naturale e meno faticosa. Non voglio sembrare troppo ottimista ma penso che questo porrebbe fine alla distruzione ecologica, al monopolio e alla schiavitù e sancirebbe il diritto di ogni essere vivente a mangiare bene. Attraverso il cibo si solleciterebbe la formazione di reti collaborative e si favorirebbe una società più democratica».
PETRINI: «Sono d'accordo con te e aggiungo: se non passiamo a una dimensione di attivismo, il rischio è che queste belle idee non vengano poi tradotte in comportamenti. Dobbiamo dunque passare all'azione partendo dal basso; perché la democrazia non esiste se noi cittadini in primis non la pratichiamo, e il cibo è un campo perfetto nel quale esercitare la nostra cittadinanza attiva. Ogni alimento che decidiamo di mangiare è infatti il risultato di dinamiche politiche, economiche, culturali e sociali che noi cittadini, attraverso le nostre scelte quotidiane, possiamo contribuire a cambiare in meglio. Vorrei che questo fosse il messaggio di rigenerazione che passi forte al nostro prossimo incontro di Terra Madre - Salone del Gusto. Perché è vero che il nostro è un evento dove si mangia e ci si diverte, ma in cui si riflette anche. In questa dimensione di festa è infatti centrale il riconoscimento che il cibo e l'agricoltura sono elementi politici attraverso cui implementare un'economia che mette al centro i beni comuni, i beni relazionali e la tutela dell'ambiente e delle diversità in ogni loro possibile manifestazione».
STEEL: «Per un cambiamento che sia davvero profondo io penso che dovremmo iniziare da due cose: riportare l'oikonomia - termine del greco antico per indicare la gestione domestica (sfera in cui rientra anche l'alimentazione) - all'interno dell'economia; e favorire una riforma della terra che ne faciliti l'accesso scardinando il concetto di proprietà, e facendo invece pagare una tassa sull'utilizzo. Arriviamo da secoli di capitalismo e industrializzazione che ci hanno fatto credere che la natura è gratuita, le risorse sono infinite e che il mercato lasciato libero di agire si autoregola: tutte assunzioni che si sono rivelate fallaci. Il cibo è l'elemento più vitale di cui disponiamo; metterlo al centro della nostra economia ci permetterebbe di stabilire una relazione armoniosa con la natura, di ricucire i legami tra la città e la campagna e di valorizzare i legami umani. Grazie a movimenti come Slow Food, che mostrano come il cibo possa essere la nostra guida per il cambiamento, tutto quello che ho detto sembra meno utopistico. D'altronde nessuno di noi esisteva prima del cibo: ci ha preceduto, anticipato, ci sostiene e vivrà dopo di noi. Il cibo è elemento emozionale che ci lega alle persone care, e rimane la nostra speranza più grande per un florido futuro sitopico».