È per essere onesti che leggiamo la realtà della chiesa di oggi come una realtà critica, segnata da diminuzione e non da dilatazione, da arretramento e non da estensione, attraversata da conflitti, gravi tensioni e molti abbandoni. Non a caso le domande che risuonano nel tessuto ecclesiale sono: “Siamo gli ultimi cristiani?”, oppure: “Ormai c’è l’implosione del cristianesimo?”, e così via…
Va anche registrata una nostalgia della cristianità passata, soprattutto medievale, che si esprime come volontà di conservare la tradizione – ma siamo poi così sicuri che quella cristianità sia stata concreta e reale? –, e così si stigmatizza la comparsa di tante novità che turbano e sembrano demolire molte certezze custodite e tramandate circa la chiesa e la sua dottrina.
In realtà occorrerebbe essere muniti di sapienza umana e del dono del discernimento per fare una lettura del presente meno allarmistica, direi addirittura meno catastrofica, e penetrare in una comprensione della storia al di là della cronaca, con occhio contemplativo, ma anche con una memoria lucida di ciò che è stato prima di noi.
Di fronte al fatto che oggi molti cattolici restano scandalizzati da parole ed eventi che chiamano “novità” e che per loro sono una contraddizione, una smentita della secolare tradizione, occorrerebbe leggere e meditare queste parole di Anselmo di Havelberg, che intorno al 1160 scriveva: “Molti si stupiscono, si interrogano, si indignano: perché tante novità nella chiesa? Chi non sarà scandalizzato e non sentirà disgusto di fronte a tanti cambiamenti?”.
E quattro secoli più tardi si può cogliere la stessa lamentela in Teresa d’Avila: “Non ho ancora cinquant’anni e ho visto tanti cambiamenti nella mia vita che non so più come vivere! Come andrà a finire? Preferisco non pensarci! Cosa diventeranno questi nostri giovani non oso immaginarlo…”.
E nel secolo scorso il cardinal Verdier prima della seconda guerra mondiale osava scrivere: “Il mondo moderno subisce una crisi di cui non si sa esagerare la gravità. Siamo giunti a un punto tale per cui stiamo andando dritti verso l’abisso. Dai giorni del diluvio non si è incontrata una crisi materiale e spirituale così profonda!”.
Tre annotazioni parallele nell’arco di un millennio, valutazioni che oggi noi riproponiamo quasi con le stesse parole…
E non voglio dimenticare un’altra testimonianza molto eloquente, quella di Benivieni, un cronista italiano della fine del xv secolo. Egli osservava: “L’Italia ha perduto la fede in Cristo: in generale si pensa che in tutto il mondo gli affari degli uomini si spieghino con il caso, altri dicono con l’influenza delle stelle, il destino. La vita dell’aldilà è non più creduta ma negata, la religione viene derisa! L’Italia e soprattutto Firenze sono totalmente senza fede!”.
Leggere queste testimonianze ci deve mettere in guardia e farci ripensare alle nostre letture e alle nostre previsioni oggi così negative sulla chiesa e sulla partecipazione dei fedeli alla vita ecclesiale. Una cosa mi pare evidente: siamo miopi, non sappiamo guardare lontano, manchiamo di sapienza e non ci accorgiamo che in realtà il cristianesimo non fa che risorgere!
Perché se diventiamo minoranza, piccola realtà come chiesa di Cristo, l’importante è essere creativi e significativi, non essere in tanti. Gesù ci ha chiamato “piccolo gregge”, non ci ha invitati a diventare maggioranza nella società, ma ad essere sale, lievito nel mondo, oppure anche piccola luce sul monte. Questo non significa essere chiamati a formare un’élite, un gruppo di eletti, ma essere dei compagni affidabili per gli altri, poveri viandanti come noi.