La Repubblica - 13 Febbraio 2023
di Enzo Bianchi
Molti sicuramente sono rimasti gravemente turbati all’ascolto delle notizie provenienti dalla Siria circa l’atteggiamento del dittatore Assad. Ha vietato alle popolazioni terremotate, devastate da una catastrofe, di ricevere gli aiuti internazionali a motivo della loro identità curda: si tratta di gente che lotta per il riconoscimento dell’autonomia nella sua terra. Nella terribile e dolorosa situazione di persone rimaste senza casa, senza riscaldamento, senza elettricità e senza acqua, situazione segnata da decenni di guerra, viene vietata la compassione.
Ma anche da noi, nel nostro paese, di fronte a situazioni di sofferenza individuale e con diverse cause la compassione non solo è quasi assente, ma viene anche negata invocando alcune ragioni innanzitutto giuridiche.
Martha Nussbaum, filosofa statunitense, ha prestato particolare attenzione alla compassione non solo come sentimento o virtù individuale, ma come necessaria dimensione sociale, una modalità del vivere insieme, una necessità della convivenza che deve potersi esprimere anche nella politica e negli istituti giuridici. Se le cause della sofferenza sono anche collettive, allora la compassione dovrebbe figurare tra gli strumenti politici e sociali per la trasformazione di una situazione. Paul Ricoeur ha chiesto, con la sua autorevolezza di umanista oltre che filosofo, l’applicazione della compassione ai nostri sistemi giuridici. E se per un verso in nome della compassione non si possono dimenticare le regole della giustizia, per un altro verso la giustizia necessita di compassione se non vuole diventare anonima e disumana, e deve poter coniugare le dimensioni dell’universalità e della singolarità.
Se è vero, infatti, che le sofferenze non si equivalgono e possono avere cause e responsabilità diverse, se ci sono anche sofferenze cercate e meritate (senza entrare in una logica punitiva!), ascoltare le sofferenze degli altri non significa approvarle, né condividerne le ragioni, ma significa rifiutarsi di considerare le sofferenze con indifferenza.
La compassione, questo sentimento universale che è al cuore di spiritualità anche molto diverse fra loro – da quella cristiana a quella buddhista –, non è mai riservata ai soli membri della stessa comunità, della stessa famiglia, ma è indirizzata a tutti perché è un sentimento naturale degli umani. Nasce dalle profondità delle viscere materne, secondo la Bibbia, e dice la propria vulnerabilità, come capacità di essere feriti, toccati dalla sofferenza altrui. Colui che soffre e colui che ha compassione non sono infatti in cammino verso un unico destino? Dostoevskij ha definito la virtù della compassione la più importante delle virtù e l’unica legge di vita dell’intera umanità. Solo la compassione fa progredire l’umanità.
Ma c’è da temere che in questo avanzare della barbarie, diventino un sottofondo a tante dichiarazioni fatte in questi giorni le affermazioni di Nietzsche in Così parlò Zarathustra: “Io non amo i compassionevoli … Quelli che creano devono essere duri. Sia lodato ciò che rende duri!”.
Se si instaurasse culturalmente un simile modo di pensare la società e se si assumesse questa postura di fronte alla sofferenza sarebbe davvero non solo la morte della pietà, ma la morte dell’umano. Ciò che fa l’umanità è la passione condivisa, un patire in comune, insieme, per poter vivere insieme.