La Repubblica - Torino - 26 Febbraio 2023
Intervista di Francesca Bolino a Enzo Bianchi
Lontano da Bose, Enzo Bianchi ha ricreato il suo monastero, una piccola casa ai piedi della collina di Torino, il piccolo orto dove affondano le sue radici esistenziali, un solo compagno, Melek un cucciolo vivacissimo che mordicchia instancabile le scarpe degli ospiti. Inevitabilmente sono in tanti a passare di qui, anche solo per scambiare una parola.
Ma intanto, auguri padre Bianchi!
«Grazie. Venerdì compirò ottant'anni. Sono nato a Castel Boglione un paesino che, nel dopoguerra, contava appena un migliaio di abitanti. Mio padre Giuseppe faceva lo stagnino e, occasionalmente, anche il barbiere. Mia madre Angela purtroppo è sempre stata malata. Aveva una valvola mitralica al cuore che le procurava costantemente crisi d'asma. Allora non usava operare, infatti quando avevo otto anni, nel '51, è morta. Eravamo una famiglia molto povera e mio padre si arrangiava come poteva».
Ha raccontato la sua infanzia nel libro "Pane e vino" edito da Einaudi. L'idea di fondo è che non si butta via niente...
«Esatto. Sono cresciuto con quella impostazione. Non ho avuto una bella infanzia. I ricordi che ho di mia madre sono tutti legati alla malattia. È stata molto dura quando è mancata, ho provato una grande solitudine. Poi, per fortuna, sono entrate nella mia vita due donne, la maestra e la postina del paese che mi hanno accompagnato nel mio percorso di crescita e mi hanno anche supportato economicamente, senza il loro aiuto non avrei potuto studiare». L'hanno formata? «Sì, mi hanno insegnato il latino alle elementari e intorno ai 12 anni mi hanno fornito di una piccola ma significativa biblioteca con autori come Tolstoj, Dostoevskij e Mauriac... E stata una gran fortuna avere la possibilità di crescere intellettualmente in un contesto così povero, difficile e avverso».
Perché avverso?
«Nei paesi, allora, dominava una violenza dettata soprattutto dall'ignoranza. Non ero affatto amato dai parenti di mio padre perché sono sempre stato considerato il figlio di un peccato: aver sposato una donna già malata e dunque destinata a non sopravvivere».
E’ terribile.
«Per di più quei parenti, quando è morta mia madre, pensando di aiutarmi, mi donavano libri come "Il piccolo vetraio" o "Infanzia abbandonata", che mi facevano sentire ancora peggio. Non c'era intelligenza nel loro modo di pensare e di agire. Non capivano che quei racconti di ragazzi orfani e poveri mi rendevano ancora più inadeguato e solo. Il risultato per me è stato un'interiorizzazione ancora più grande e profonda di quella che un ragazzino può e deve provare».
Ha conosciuto troppo giovane le misure del dolore. Dove ha trovato la forza per superare tutto questo?
«Non so. Certamente la strada è stata edizioni torinesi. Leggevo e sottolineavo ogni cosa. E poiché avevo bisogno di confronto che certo non potevo trovare intorno a me, ho iniziato un corso di corrispondenza con Roma. Divoravo Lucrezio, compagno di strada meraviglioso che ho sempre sul comodino. E alle superiori ho avuto un professore davvero unico e straordinario, Giovanni Boano, che è diventato poi deputato europeo della Dc. Ci insegnava il russo perché potessi leggere Dostoevskij in lingua originale».
E poi ha scelto economia e commercio. Perché?
«Dobbiamo tornare indietro ma di poco. Alle superiori, grazie a Giovanni Boano che era segretario della Dc, ero entrato in Azione Cattolica. Volevo far carriera, i dirigenti mi dicevano che c'erano già troppi filosofi e professorini e invece mancavano gli economisti. E così sono arrivato a Torino e mi sono iscritto a Economia. Abitavo in via Piave 8 ed è in quel periodo che ho iniziato a frequentare la Fuci (la Federazione degli universitari cattolici) ma poi, in meno di due mesi, mi sono messo in proprio» (Sorride).
Cioè ha formato un gruppo tutto suo. Perché?
«Sì, ho fondato un gruppo biblico perché oramai la Fuci si stava sgretolando: il segretario ha abbandonato tutto perché si voleva sposare. Il suo successore, dopo un anno, ha fatto la stessa scelta. Ed era solo l'inizio della profonda crisi che ha poi coinvolto le istituzioni religiose».
Certo, ma erano gli anni in cui la Chiesa si stava aprendo al sociale, c'era il Concilio Vaticano Il, la messa non si diceva più in latino. Insomma, qualcosa stava cambiando ma lei ha creato il suo primo gruppo, da solo.
«Sì, gli anni 60. E così. Però, mentre la Chiesa si apriva, le istituzioni religiose affondavano. La Fuci si era svuotata, era finita ed io mi sono dato da fare. C'era bisogno di un nuovo orizzonte e di un'altra formula di vita cristiana. All'inizio eravamo in trenta, tra cui valdesi e ortodossi greci». E dovevi riunivate? «Prima in via Piave dove abitavo poi, essendo in troppi, ci siamo spostati in una sala di un seminario di via XX Settembre».
Dal gruppo biblico è passato alla comunità. Ma poi, per tre anni, è rimasto solo, in ritiro, in una cascina. Ci racconta com'è andata?
(Sorride). Nel gruppo, inizialmente, c'erano due uomini e due donne. Era l'estate del '65. Avevamo deciso di fare insieme un'esperienza diversa e così abbiamo cercato una casa vicino ad una chiesa romanica sulla Serra di Ivrea, a Bose. Era un posto senza luce elettrica e acqua. Piuttosto distante dalla strada principale. Molto isolato. Io mi sono trasferito subito, gli altri sarebbero dovuti arrivare qualche mese dopo».
Ma non è arrivato nessuno.
«Esatto. Le due ragazze si erano fidanzate, un ragazzo non era poi così convinto e l'altro voleva studiare sociologia a Trento. Così sono rimasto lì, da solo».
E come ha vissuto in quei 3 anni?
«Avevo l'orto, l'ho sempre avuto. Ricordo che, quando ho fatto l'esame di ammissione alla terza media, mio padre mi ha chiesto quale regalo desiderassi: io volevo l'orto. Tornando alla cascina: non c'era il frigo, essendo senza energia elettrica, così mettevo il burro nel pozzo, il posto più fresco. Avevo una vespa con cui andavo in paese per rifornirmi di cibo. E poi per guadagnare qualcosa, traducevo dal francese articoli di teologia. Ho anche messo una campana che suonavo per me tre volte al giorno. A un certo punto, quasi misteriosamente, alcune persone hanno cominciato a venire per capire cosa facevo».
È stata dura.
«Sì, sono stati anni non facili ma non ho mai perso la serenità, mi sono temprato, ho avuto il tempo per conoscermi a fondo. Ho incontrato persone davvero speciali, viandanti e girovaghi che erano di passaggio, si fermavano, li ospitavo. Vicino a me abitavano una signora con il figlio: cucinavano la polenta e ogni tanto me ne davano qualche fetta. Ne ho mangiata così tanta con il gorgonzola». (Sorride).
Dopo questi tre anni di solitudine estrema, sono arrivate, finalmente, anche altre persone. E via via...
«Nel corso degli anni siamo poi arrivati a 95 anime e Bose ha raggiunto il suo massimo splendore».
Quale era "la regola" da lei istituita che ha scolpito l'identità della comunità di Bose?
«Innanzitutto mi sono ispirato al monachesimo basiliano e a san Pacomio, monaco cristiano egizio poco conosciuto in Occidente. Il suo era un modello di pensiero e di vita cui non solo ho guardato ma che ho anche messo in pratica. Ho fondato una comunità con tre ideali principali: dovevano essere persone semplici, laiche, non religiose, non preti, battezzate come tutti gli altri. Uomini e donne che dovevano lavorare e non dipendere dalle offerte o dai finanziamenti e dunque liberi dalla Chiesa. Terzo aspetto fondamentale: dare ospitalità a chi lo chiedeva, abbiamo accolto circa quindicimila persone l'anno».
Quali papi ha conosciuto?
«Ho incontrato Giovanni Paolo II quando mi ha chiesto di restituire al patriarca Alessio II l'icona della Vergine di Kazan nella cattedrale della Dormizione al Cremlino. Poi nel '76 ho conosciuto papa Benedetto, quando era un teologo, ad un convegno sul Vaticano II. E da allora abbiamo avuto molte altre occasioni di incontro, abbiamo scritto un libro insieme, partecipato al Giubileo del 2000 sulla confessione dei peccati della Chiesa. E mi ha nominato come esperto per due Sinodi, cosa che non accade così spesso, soprattutto per un laico come me. E papa Francesco, con cui ho avuto un rapporto più umano, meno teologico».
Padre Bianchi perché non si è mai fatto prete?
«Mai sentita la vocazione. Il cardinal Pellegrino mi ha chiesto più volte se volevo ordinarmi prete, ma io sono sempre voluto restare un semplice laico come tutti».
E da laico, ha mai conosciuto l'amore?
(Sorride).«Certo, ho avuto una fidanzata quando ero all'università, avevo vent'anni. Ci siamo amati molto per due anni. Poi però sono stato troppo assorbito dal mio ideale, dalla volontà di dar vita al mio sogno: una comunità ecumenica, non solo cattolica, fatta di donne e uomini con gli stessi diritti. Ecco "la regola", questa è la regola che ho pensato e che ho scritto per Bose».
Bose è stato ed è un luogo carismatico perché lei lo ha costruito e formato in tal senso. Poi però se ne è andato. Cosa rimane oggi di quella magia mistica?
«Non so. Io ho cambiato strada. Bose non è certamente più quella di prima. Molte persone se ne sono andate dopo che io sono venuto via, nel 2017. Il problema è che nessuno è più entrato...».
Che rapporto ha con il nuovo priore?
«Cordiale. Ho chiesto più volte la riconciliazione ma non l'ha mai voluta. Allora ognuno è andato per la sua strada».
Significa che fonderà una nuova comunità, una Bose 2?
(Ride). «No. Un figlio si fa una sola volta».
Però a breve andrà in una cascina "Camadio", ossia "Casa della madia" a Albiano per "vivere nella pace gli ultimi anni della vita" come ha scritto sul suo sito.
«E’ vero, a giugno mi trasferirò in quella cascina. Verranno anche alcuni amici, in parte quelli che hanno lasciato Bose. Insomma, è una bella sfida a ottant'anni. (Sorride)».
Il suo luogo dell'anima?
«Via Po e per l'esattezza il caffè Fiorio, dove ho trascorso gli anni meravigliosi dell'università».
Ha rimpianti?
«Vuole sapere semi manca l'amore? Certo. Avrei anche voluto figli. D'altronde l'essere umano è anche fatto di carne. Ma è andata così».