Il rapporto tra sacro e fede cristiana (prima parte)
Il primato va indubbiamente alla fede, che critica e sottopone
a discernimento la religione
Pubblicato su: Vita Pastorale aprile 2023
di Enzo Bianchi
Mentre attendiamo la pubblicazione dei documenti continentali in preparazione, finalizzati alla redazione dell’Instrumentum laboris per la prossima assemblea sinodale dell’ottobre 2023, affrontiamo un tema decisivo per quel che riguarda la forma della vita ecclesiale nel prossimo futuro, il tema della liberazione del sacro che la nostra fede cristiana richiede.
Sappiamo come da più parti si chieda di tornare al sacro di prima del concilio Vaticano II, o si indichi nella perdita del sacro la causa dell’attuale crisi di partecipazione alla liturgia della chiesa. Questo avviene perché non c’è chiarezza sulla nozione del sacro e perché spesso si usa questa parola caricandola di altri significati. Nella vita cristiana ci sono certamente condizioni antropologiche che diventano necessarie per la liturgia, la celebrazione della fede, il dire insieme la fede. Queste condizioni non devono essere classificate come sacre, ma semplicemente come necessarie. Nel rapporto tra fede e religione, non lo si dimentichi, il primato va alla fede, che critica e sottopone a discernimento la religione, la quale a sua volta appresta alla fede spazi e tempi perché essa si manifesti.
Dunque nessuna negazione di edifici per il culto, di altari e amboni, di vesti liturgiche, di incenso che brucia e profuma: tutte precondizioni antropologiche all’incontro con Dio, ma non per questo sacre. Nel disincanto del mondo attuale, nell’assenza di sacralità, la fede cristiana può essere celebrata, vissuta e proclamata con efficacia perché è lo Spirito santo, non una potenza sacra, il protagonista. Ma in questa prima parte facciamoci ascoltatori della Parola contenuta nelle Sante Scritture.
1.Perché gli esseri umani creano il sacro?
Quando si vuole che una realtà che appartiene alla vita ordinaria sia straordinaria, eccezionale, non immediatamente disponibile, allora quella realtà la si separa, la si mette a distanza, la si rende sacrapro-fano è lo spazio davanti al tempio-presenza di Dio, il fanum è lo spazio riservato a Dio, spazio sacro. Allora quella realtà che si vuole separare la si colloca nel fanum e diventa sacra!!!
Così si consacra una realtà:
dal profano al “sacro”
dall’ordinario allo straordinario
da un uso quotidiano a un uso esclusivo
dal popolo alla tribù santa di leviti e sacerdoti
Si compie Altro dall’ordinario! Si ritiene sacro e si venera ciò che è detto tale ma che è stato preso dalla vita ordinaria. I pani del volto, posti dinanzi al Santo dei santi, sono sacri e solo i sacerdoti li possono mangiare; l’Arca dell’Alleanza non la si può toccare altrimenti fulmina chi le si avvicina; non la si può neppure vedere, perciò è protetta da un velo! (cf. 1Sam 21,5-7; 2Sam 6,4-11; 1Sam 6,19). Anche alcuni giorni e tempi vengono dichiarati sacri, come il sabato, e sacri sono dichiarati luoghi dove si tramanda che Dio si è fatto vedere, o Dio regna, come il tempio, e nel tempio soprattutto il luogo più sacro, il Santo dei santi!
L’Antico Testamento dà dunque una notevole testimonianza alla presenza e alle esigenze del sacro, istituisce un suo sistema di sacralizzazione che ancora oggi è osservato scrupolosamente e venerato dagli ebrei figli dei farisei postbiblici.
2. Il Vangelo irrompe in un mondo sacralizzato
È impensabile che il messaggio di Gesù non sia stato preparato nei giorni della pazienza di Dio, nei secoli dell’Antico Testamento. Già in Israele era iniziato l’esodo dal sacro. Israele con Mosè ha ricevuto la Torah, ma i profeti, i sapienti, e soprattutto l’esperienza dell’esilio a Babilonia e della diaspora hanno influito molto sulla sua fede.
Distrutto il Tempio di Gerusalemme nel 587 ad opera dei babilonesi, cessano i sacrifici, ma la fede di Israele permane, anzi si rafforza. Il popolo di Dio, sotto la guida dei profeti, comprende che “l’obbedienza a Dio vale più dei sacrifici” (cf. 1Sam 15,22), comprende che Dio vuole la misericordia piuttosto dei sacrifici, la conoscenza di Dio piuttosto degli olocausti (cf. Os 6,6) e si fa strada l’idea che la preghiera sostituisca i sacrifici al tempio, i credenti sostituiscano i sacerdoti nelle sinagoghe, e che le opere di carità e di misericordia valgano quanto valevano gli atti cultuali al tempio. Anche la profanazione del tempio e la soppressione del culto da parte di Antioco Epifane nel 167 accelera l’esodo dal sacro e dai sacrifici. Nel Libro di Giuditta (cf. Gdt 9,1) si attesta che la preghiera dei vespri conforme all’ora del sacrificio vespertino al tempio lo sostituisce (cf. anche Sal 141,2 e Dn 6,11) e un targum al profeta Malachia 1,11 trasforma il versetto:
“Dall’oriente all’occidente grande è il mio nome fra le genti e in ogni luogo è offerto incenso al mio nome e un’offerta pura davanti a me”
in:
“Dall’oriente all’occidente grande è il mio nome fra le genti e in ogni luogo la nostra preghiera sarà come un’offerta pura davanti a me”.
Ma soprattutto le opere di misericordia, la condivisione dei beni, la condivisione del pane e dei vestiti, il seppellimento dei morti (cf. Tb 1,16-17). assumono il valore di sacrificio. Perciò alle soglie del Nuovo Testamento, nel Siracide, leggiamo:
“Osservare la legge è eguale a moltiplicare le offerte;
aderire ai comandamenti è offrire un sacrificio per la salvezza.
Ringraziare equivale a fare un’offerta di fior di farina
fare l’elemosina è offrire un sacrificio di lode” (Sir 35,1-4).
E al tempo di Gesù, rabbi Simeone il Giusto predicava: “Il mondo poggia su tre colonne: la Torah, il culto e le opere di misericordia!”.
Questi alcuni tratti della preparatio evangelica, che pone fine radicalmente, senza possibilità di recupero, al sistema del sacro veterotestamentario.
I vangeli cosa testimoniano del rapporto tra Gesù e il sacro? Innanzitutto non abbiamo mai riferimenti ad azioni sacrificali compiute da Gesù al tempio. Egli lo frequentava, nel tempio certamente ha pregato come pregava nel deserto, nella notte, nelle sinagoghe e altrove, ma non ha mai partecipato a liturgie sacrificali, né ha impartito un insegnamento sul sacrificio ai suoi discepoli, e soprattutto non ha previsto riti sacrificali per la sua comunità. Quando ha istituito un memoriale da celebrarsi fino alla sua venuta gloriosa ha spezzato il pane e dato il calice del vino, azioni non sacrificali ma di lode, di ringraziamento e di benedizione! È significativo che secondo il Vangelo di Marco Gesù non solo ha fatto un gesto di purificazione del tempio, ma ha impedito lo svolgimento dei sacrifici che là si facevano, scacciando pecore, agnelli e buoi, cioè le vittime designate per il sacrificio (cf. Mc 11,15-19), mettendo così fine a tutti i sacrifici previsti nell’antica alleaza.
Sì, va detto con chiarezza: proprio il luogo santo del tempio, il luogo più sacro, è stato da Gesù condannato e spogliato di tutta la sua potenza. Non a caso l’accusa mossa contro di lui è di aver bestemmiato contro quel luogo santo, di cui ha anche profetizzato la distruzione, e dunque la fine della sua funzione. È la presenza di Gesù che rende inutile il tempio, perché il vero tempio è proprio il suo corpo che sarà segnato da morte e resurrezione (cf. Gv 2,19) e perché ormai solo attraverso di lui e il sacrificio della sua vita si apre la via alla comunione con Dio. Dunque nell’economia cristiana non c’è più né tempio, né altare, né vittima! L’unico sacrificio è quello avvenuto “una volta per tutte” (ephapax, Lettera agli Ebrei) sul monte del cranio, sul Golgotha, il 7 aprile del 30, e l’unica vittima messa a morte dall’umanità peccatrice è Gesù, il Figlio di Dio e Figlio dell’uomo.
Anche il sabato, giorno sacro, è posto da Gesù a servizio dell’uomo, con la dichiarazione che “il Figlio dell’uomo è signore del sabato” (Mt 12,8): “l’uomo non è a servizio del sabato” (cf. Mc 2,27). Questo giorno è per la vita, per lo shalom, vita piena, e dunque non è sacro perché è l’essere umano il primo luogo sacro in cui Dio vuole essere glorificato (cf. 1Cor 6,19-20).
(continua nel prossimo numero)
Il cuore della desacralizzazione rivelataci dal Vangelo è nella incarnazione, nel Dio fatto carne
Pubblicato su: Vita Pastorale maggio 2023
di Enzo Bianchi
Nella prima parte di questo contributo abbiamo evidenziato soprattutto gesti e parole di Gesù testimoniate dai Vangeli che hanno avuto e conservano il significato di una netta e chiara desacralizzazione da lui voluta e attuata. Nessuno può negare che le sue parole sul tempio di Gerusalemme e sul tempio del monte Garizìm siano state dichiarazioni autorevoli, soprattutto profetiche, riguardo alla fine del ruolo di mediazione sacra di un luogo nei rapporti con il Dio vivente. È Cristo ormai il vero tempio, la shekinà di Dio, che permette l’adorazione del Padre nello Spirito e nella verità che è lui stesso. E nessuno può negare che le sue dichiarazioni sul sabato rivelino il primato del servizio all’uomo. Ma il cuore della desacralizzazione rivelata dal Vangelo è nell’incarnazione del Lógos, nel Dio che s’è fatto sárx, carne, umano fino alla morte e alla morte in croce.
La Lettera agli Ebrei ci svela questo grande mistero leggendo l’incarnazione come un movimento dall’alto verso il basso, dalla condizione divina alla situazione umana. Gesù è diventato “sacerdote dei sacerdoti” raggiungendo la pienezza sacerdotale e diventando degno e capace di portare a termine l’opera, non come il sommo sacerdote attraverso successive separazioni dal mondo e dalla condizione umana, non diventando un consacrato, separato dai fratelli, purificato, rivestito di tunica, manto e turbante, unto e asperso con il sangue dell’agnello. Questa era la consacrazione del gran sacerdote! Ma Gesù è consacrato nella direzione contraria: mai consacrato con l’olio ma con lo Spirito santo, Gesù discende, si abbassa, dalla condizione di Dio verso i peccatori, si spoglia e nella nudità della miseria della carne mortale va alla croce e muore come antisacrificio per eccellenza, anáthema, maledetto da Dio e dagli uomini e per questo sospeso tra cielo e terra.
L’atto di consacrazione del figlio di Dio è il contrario della dinamica della consacrazione sacerdotale. Il sacerdote si separava dalla tavola dei peccatori, Gesù si sedeva alla tavola dei peccatori! Non si poneva in un’attitudine di separazione dal mondo e dal suo popolo. E quando come il sommo sacerdote Gesù si faceva intercessore per i suoi fratelli restava tuttavia in mezzo a loro, ai peccatori: sulla croce è stato appeso tra due malfattori, nella solidarietà con noi verso i quali inoculava la sua santità. La croce non è l’altare, è il luogo dell’antisacrificio e il corpo di Gesù, la sua vita è stata vero sacrificio, offerto liberamente e per amore al Padre. Perciò Gesù è il sacerdote dei sacerdoti per l’eternità, che pone fine al sacerdozio di Aronne, e pone fine al tempio!
Sì, sacerdozio, sacrificio e vittima non hanno più ragione di esistere perché ormai identificati nella persona stessa di Gesù Cristo! Paolo l’Apostolo ha compreso bene la valenza sacerdotale della morte in croce e della risurrezione di Gesù, e perciò può dire ai cristiani: «Offrite i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio: è questo il vostro culto secondo la Parola» (Rm 12,1). Arriverà addirittura a pensare alla sua azione evangelizzatrice come “sacrificio profumato” (cf 2Cor 2,14-17), come libagione sul sacrificio della fede dei cristiani di Filippi (cf Fil 2,17).
Per questo il Nuovo Testamento abbandona il linguaggio del sacro e attesta che con la venuta di Cristo non ci sono più realtà separate, consacrate: nessun luogo è sacro se non il corpo di ogni essere umano, nessuna autorità è sacra nella Chiesa e nel mondo, perché tutte le realtà sono chiamate alla santificazione dell’esistenza. Per noi cristiani non c’è più sacralizzazione della legge, né dei templi, né del culto, né della terra, né delle persone, e la salvezza sta nel riconoscimento della nostra miseria, del nostro peccato e nell’accoglienza dell’amore gratuito di Dio che non dobbiamo mai meritare ma solo accogliere nello stupore della fede.
Ma se la desacralizzazione è un’urgenza connaturata alla fede cristiana, va pure confessato che conessa sono state spazzate via realtà che venivano dichiaratesacre, ma in realtà erano semplicemente condizioni antropologiche assolutamente necessarie. Purtroppo sotto l’ombrello del sacro si è messo un po’ di tutto, creando confusione e finendo per depauperare la vita spirituale. Perché se nel cristianesimo va abolito il sacro non per questo devono essere aboliti i riti!
Se è vero che non dobbiamo salire al tempio di Gerusalemme per avere un rapporto salvifico con il Signore, se è vero che Dio è presente nelle profondità del cuore del cristiano, nell’intimo della sua coscienza, resta altrettanto vero che possiamo essere favoriti nel discernimento di questa presenza da situazioni antropologiche che noi definiamo e viviamo. La fede necessita della religione anche se la giudica e la critica e richiede che sempre sia sottoposta a discernimento. La fede ha il primato, ma la religione ha la sua ragion d’essere: quindi se la desacralizzazione è una necessitas cristiana, i riti e determinate condizioni antropologiche sono non irrilevanti per favorire la relazione con Dio. La religione è subordinata alla fede che non le permette di essere inquinata e da mezzo, strumento, diventare fine. Nel culto il grande rischio è sempre quello denunciato dai profeti: passare dal servizio di Dio al servizio dell’altare!
Il cristiano dunque accoglie, anzi sceglie uno spazio per ritrovarsi con i fratelli a confessare la fede (culto) e a celebrare l’eucaristia. Riconosce che uno spazio, come ad esempio una chiesa, gli consente raccoglimento, silenzio, ma sa che può incontrare il Padre anche nel segreto della propria camera, nel deserto o di fronte al mare! Nessun luogo è sacro, non ci sono luoghi più adatti di altri per chi vuole andare verso sé stesso e ascoltare la voce del Signore che parla. Perciò sono beati Le Corbusier, Matisse e Michelucci che ci hanno donato non spazi sacri, ma spazi che aiutano al dialogo con Dio, spazi di gloria per il Signore. Ed è così anche nel fluire del tempo. «Oggi è il tempo della salvezza! Oggi è tempo di svegliarsi dal sonno! Oggi è il giorno del Signore...» ci fa cantare la Chiesa e scheggiando le parole di Gesù e dei profeti. Quando fissiamo un tempo di conversione (la Quaresima), o un tempo in cui esercitarsi all’attesa della Parusìa (Avvento), noi non viviamo tempi sacri ma facciamo sì che il tempo sia al nostro servizio, al servizio della nostra fede che antropologicamente è vissuta nel tempo e nello spazio.
Per questo fin dalle origini della Chiesa sono apparsi alcuni riti, necessari a chi appartiene al popolo di Dio per la manifestazione, l’epifania della comunione. Il battesimo, la cena del Signore, l’imposizione delle mani sono riti che da sempre hanno accompagnato i cristiani. Senza segni, senza epifanie, senza dire l’uno all’altro la nostra fede, non è possibile per noi essere discepoli
di Gesù. Ha scritto Louis-Marie Chauvet: «La buona salute della fede cristiana è legata non a un rigetto del rito, ma a una sua gestione critica, e ciò suppone che esso sia costantemente evangelizzato. È a mio parere decisivo, a questo riguardo, ricordare che il cuore della liturgia e dei sacramenti cristiani non è il rito, bensì la parola di Dio: è sempre questa parola che in essi avviene, ma vi avviene sotto forma rituale».
Tale ritualità rischia sempre di essere ambigua, o addirittura falsa e ipocrita, come denunciavano i profeti; se non è accompagnata dalla verità e dalla concretezza della realizzazione nella vita diventa “abominio, delitto e solennità” (cf Is 1,13): liturgia grandiosa, magari faraonica, ma pure scena religiosa mondana. Sollecitudine per la liturgia sì, sollecitudine per il sacro no!