Il cuore della desacralizzazione rivelataci dal Vangelo è nella incarnazione, nel Dio fatto carne
Pubblicato su: Vita Pastorale maggio 2023
di Enzo Bianchi
Nella prima parte di questo contributo (VP aprile 2023) abbiamo evidenziato soprattutto gesti e parole di Gesù testimoniate dai Vangeli che hanno avuto e conservano il significato di una netta e chiara desacralizzazione da lui voluta e attuata. Nessuno può negare che le sue parole sul tempio di Gerusalemme e sul tempio del monte Garizìm siano state dichiarazioni autorevoli, soprattutto profetiche, riguardo alla fine del ruolo di mediazione sacra di un luogo nei rapporti con il Dio vivente. È Cristo ormai il vero tempio, la shekinà di Dio, che permette l’adorazione del Padre nello Spirito e nella verità che è lui stesso. E nessuno può negare che le sue dichiarazioni sul sabato rivelino il primato del servizio all’uomo. Ma il cuore della desacralizzazione rivelata dal Vangelo è nell’incarnazione del Lógos, nel Dio che s’è fatto sárx, carne, umano fino alla morte e alla morte in croce.
La Lettera agli Ebrei ci svela questo grande mistero leggendo l’incarnazione come un movimento dall’alto verso il basso, dalla condizione divina alla situazione umana. Gesù è diventato “sacerdote dei sacerdoti” raggiungendo la pienezza sacerdotale e diventando degno e capace di portare a termine l’opera, non come il sommo sacerdote attraverso successive separazioni dal mondo e dalla condizione umana, non diventando un consacrato, separato dai fratelli, purificato, rivestito di tunica, manto e turbante, unto e asperso con il sangue dell’agnello. Questa era la consacrazione del gran sacerdote! Ma Gesù è consacrato nella direzione contraria: mai consacrato con l’olio ma con lo Spirito santo, Gesù discende, si abbassa, dalla condizione di Dio verso i peccatori, si spoglia e nella nudità della miseria della carne mortale va alla croce e muore come antisacrificio per eccellenza, anáthema, maledetto da Dio e dagli uomini e per questo sospeso tra cielo e terra.
L’atto di consacrazione del figlio di Dio è il contrario della dinamica della consacrazione sacerdotale. Il sacerdote si separava dalla tavola dei peccatori, Gesù si sedeva alla tavola dei peccatori! Non si poneva in un’attitudine di separazione dal mondo e dal suo popolo. E quando come il sommo sacerdote Gesù si faceva intercessore per i suoi fratelli restava tuttavia in mezzo a loro, ai peccatori: sulla croce è stato appeso tra due malfattori, nella solidarietà con noi verso i quali inoculava la sua santità. La croce non è l’altare, è il luogo dell’antisacrificio e il corpo di Gesù, la sua vita è stata vero sacrificio, offerto liberamente e per amore al Padre. Perciò Gesù è il sacerdote dei sacerdoti per l’eternità, che pone fine al sacerdozio di Aronne, e pone fine al tempio!
Sì, sacerdozio, sacrificio e vittima non hanno più ragione di esistere perché ormai identificati nella persona stessa di Gesù Cristo! Paolo l’Apostolo ha compreso bene la valenza sacerdotale della morte in croce e della risurrezione di Gesù, e perciò può dire ai cristiani: «Offrite i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio: è questo il vostro culto secondo la Parola» (Rm 12,1). Arriverà addirittura a pensare alla sua azione evangelizzatrice come “sacrificio profumato” (cf 2Cor 2,14-17), come libagione sul sacrificio della fede dei cristiani di Filippi (cf Fil 2,17).
Per questo il Nuovo Testamento abbandona il linguaggio del sacro e attesta che con la venuta di Cristo non ci sono più realtà separate, consacrate: nessun luogo è sacro se non il corpo di ogni essere umano, nessuna autorità è sacra nella Chiesa e nel mondo, perché tutte le realtà sono chiamate alla santificazione dell’esistenza. Per noi cristiani non c’è più sacralizzazione della legge, né dei templi, né del culto, né della terra, né delle persone, e la salvezza sta nel riconoscimento della nostra miseria, del nostro peccato e nell’accoglienza dell’amore gratuito di Dio che non dobbiamo mai meritare ma solo accogliere nello stupore della fede.
Ma se la desacralizzazione è un’urgenza connaturata alla fede cristiana, va pure confessato che conessa sono state spazzate via realtà che venivano dichiaratesacre, ma in realtà erano semplicemente condizioni antropologiche assolutamente necessarie. Purtroppo sotto l’ombrello del sacro si è messo un po’ di tutto, creando confusione e finendo per depauperare la vita spirituale. Perché se nel cristianesimo va abolito il sacro non per questo devono essere aboliti i riti!
Se è vero che non dobbiamo salire al tempio di Gerusalemme per avere un rapporto salvifico con il Signore, se è vero che Dio è presente nelle profondità del cuore del cristiano, nell’intimo della sua coscienza, resta altrettanto vero che possiamo essere favoriti nel discernimento di questa presenza da situazioni antropologiche che noi definiamo e viviamo. La fede necessita della religione anche se la giudica e la critica e richiede che sempre sia sottoposta a discernimento. La fede ha il primato, ma la religione ha la sua ragion d’essere: quindi se la desacralizzazione è una necessitas cristiana, i riti e determinate condizioni antropologiche sono non irrilevanti per favorire la relazione con Dio. La religione è subordinata alla fede che non le permette di essere inquinata e da mezzo, strumento, diventare fine. Nel culto il grande rischio è sempre quello denunciato dai profeti: passare dal servizio di Dio al servizio dell’altare!
Il cristiano dunque accoglie, anzi sceglie uno spazio per ritrovarsi con i fratelli a confessare la fede (culto) e a celebrare l’eucaristia. Riconosce che uno spazio, come ad esempio una chiesa, gli consente raccoglimento, silenzio, ma sa che può incontrare il Padre anche nel segreto della propria camera, nel deserto o di fronte al mare! Nessun luogo è sacro, non ci sono luoghi più adatti di altri per chi vuole andare verso sé stesso e ascoltare la voce del Signore che parla. Perciò sono beati Le Corbusier, Matisse e Michelucci che ci hanno donato non spazi sacri, ma spazi che aiutano al dialogo con Dio, spazi di gloria per il Signore. Ed è così anche nel fluire del tempo. «Oggi è il tempo della salvezza! Oggi è tempo di svegliarsi dal sonno! Oggi è il giorno del Signore...» ci fa cantare la Chiesa e scheggiando le parole di Gesù e dei profeti. Quando fissiamo un tempo di conversione (la Quaresima), o un tempo in cui esercitarsi all’attesa della Parusìa (Avvento), noi non viviamo tempi sacri ma facciamo sì che il tempo sia al nostro servizio, al servizio della nostra fede che antropologicamente è vissuta nel tempo e nello spazio.
Per questo fin dalle origini della Chiesa sono apparsi alcuni riti, necessari a chi appartiene al popolo di Dio per la manifestazione, l’epifania della comunione. Il battesimo, la cena del Signore, l’imposizione delle mani sono riti che da sempre hanno accompagnato i cristiani. Senza segni, senza epifanie, senza dire l’uno all’altro la nostra fede, non è possibile per noi essere discepoli
di Gesù. Ha scritto Louis-Marie Chauvet: «La buona salute della fede cristiana è legata non a un rigetto del rito, ma a una sua gestione critica, e ciò suppone che esso sia costantemente evangelizzato. È a mio parere decisivo, a questo riguardo, ricordare che il cuore della liturgia e dei sacramenti cristiani non è il rito, bensì la parola di Dio: è sempre questa parola che in essi avviene, ma vi avviene sotto forma rituale».
Tale ritualità rischia sempre di essere ambigua, o addirittura falsa e ipocrita, come denunciavano i profeti; se non è accompagnata dalla verità e dalla concretezza della realizzazione nella vita diventa “abominio, delitto e solennità” (cf Is 1,13): liturgia grandiosa, magari faraonica, ma pure scena religiosa mondana. Sollecitudine per la liturgia sì, sollecitudine per il sacro no!