di Daniela Padoan
Nella tarda mattinata del 14 giugno, mentre l’Italia si preparava, a reti unificate, a celebrare i funerali di Stato di Silvio Berlusconi e la presidente maltese del Parlamento europeo Roberta Metsola dichiarava al Tg2 che la bandiera europea e quella italiana erano state abbassate a mezz’asta davanti alle sedi di Bruxelles, Strasburgo e Lussemburgo in onore di «un grande europeo» – un «uomo che si è fatto da solo», a cui «va il merito di aver portato Malta nell’Ue» – la strage di Pylos era già avvenuta da ore, ben prima dell’alba. Ma era dal mattino del giorno prima che, ben conosciuta dalle autorità europee, greche e italiane, la «più grande tragedia del Mediterraneo», come l’ha definita la commissaria Ue per gli Affari interni Ylva Johansson, precipitava verso il suo spaventoso epilogo. Già alle 9.47 del 13 giugno, un velivolo di Frontex, l’agenzia europea di controllo delle frontiere, aveva comunicato al Centro di coordinamento internazionale e alle autorità italiane e greche l’avvistamento in acque internazionali di un natante in “distress”, e alle 14.17 l’ong Alarm Phone – raggiunta sul satellitare da una giovane donna siriana poi dispersa con altre centinaia di vittime – riportava alle autorità greche, italiane e maltesi la disperata situazione di 750 naufraghi accalcati all’inverosimile, al quinto giorno di navigazione, con il motore in avaria, senza più acqua e viveri, con sei cadaveri a bordo, tra cui quello di un ragazzo di sedici anni.
Alle 16.13, Alarm Phone rendeva note alle autorità competenti le coordinate Gps del peschereccio, alle 16.53 inviava una mail a Guardia costiera, Frontex e Unhcr Grecia. Ma nessun intervento è stato effettuato fino al tramonto, quando una nave della Guardia costiera greca, senza distribuire giubbotti salvagente e senza attivare le telecamere in dotazione per tenere traccia delle operazioni di soccorso, ha agganciato il peschereccio a una fune effettuando manovre azzardate e fuori da ogni protocollo di salvataggio. Il barcone si è inabissato con il suo carico umano alle 2.04 del 14 giugno, sedici ore dopo la comunicazione di Frontex e dodici ore dopo quella di Alarm Phone. È verosimile che la Guardia costiera greca abbia ritardato l’intervento nella speranza che il barcone si dirigesse in acque italiane o maltesi.
L’Italia, dal canto suo, aveva sollecitato l’intervento di Atene già un’ora dopo la comunicazione di Frontex, con prontezza non mostrata davanti ai naufraghi di Cutro, presumibilmente cercando di evitare che il peschereccio entrasse nella zona di ricerca e soccorso di sua competenza. Un tragico ping-pong giocato da anni da Grecia, Italia e Malta – Stato ammesso nell’Ue principalmente per fare da muro contro i migranti – che ha portato i migranti a cercare rotte diverse e sempre più pericolose per evitare respingimenti collettivi mascherati da soccorsi.
Sono sempre più frequenti le denunce di push-back effettuati in violazione della Carta europea dei diritti fondamentali, dalla Grecia verso la Turchia e da Malta verso la Libia. L’ultima lo scorso 23 maggio, quando 500 persone naufraghe su un peschereccio, tra cui 55 bambini e 45 donne, sono state trainate per 300 chilometri fino al porto di Bengasi in un respingimento coordinato da Malta, per poi essere consegnate alla sedicente guardia costiera libica in quella che non si può chiamare altrimenti che deportazione.
Da anni le ong raccolgono testimonianze sui metodi di contrasto dell’immigrazione adottati illegalmente dalla Guardia costiera greca, dall’abbandono in mare dei naufraghi al sabotaggio dei motori delle barche intercettate. Lo scorso 11 aprile, il “New York Times” ha documentato con un video l’operazione di un gruppo di uomini mascherati che, sull’isola di Lesbo, hanno caricato su un furgone dodici persone – due madri somale e i loro otto figli, di cui uno di sei mesi, e due ragazzi provenienti dall'Etiopia e dall'Eritrea – per portarle in una piccola baia, caricarle su un motoscafo e raggiungere la motovedetta 617 della Guardia costiera, dalla quale sono poi state condotte fuori dalle acque territoriali greche, calate su una scialuppa gonfiabile priva di motore e abbandonate in mare. Le dodici persone sono state successivamente recuperate da una motovedetta turca e alcune di loro sono state rintracciate in un campo di detenzione a Smirne.
Anche dopo il clamore suscitato da questa denuncia, il primo ministro conservatore Kyriakos Mitsotakis ha difeso le politiche migratorie del suo governo definendole «dure ma giuste», efficaci al punto di aver ridotto gli arrivi del 90% rispetto al 2015, capaci di dimostrare «che il mare ha dei confini, e quei confini possono e devono essere custoditi». Era stata la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, per altro, a dichiarare, nel 2020, che «la Grecia è lo scudo d’Europa», e la motovedetta 617 è stata pagata in gran parte con fondi europei.
Davanti alla strage di Pylos, il premier greco – che il prossimo 25 giugno potrebbe ottenere pieni poteri grazie a una riforma elettorale introdotta dal suo stesso governo, che assegna un premio di 50 seggi a chi superi il 40% dei voti – ha dichiarato tre giorni di lutto nazionale, a differenza di quanto fatto a Cutro dal governo Meloni che, anziché incontrare le famiglie e rendere un ultimo saluto alle bare, ha licenziato un decreto restrittivo sull’immigrazione chiamato “decreto Cutro”. Ma il governo italiano e quello greco sono legati a doppio filo da una politica migratoria che toglie ogni velo alle estreme conseguenze della politica europea di dismissione dei soccorsi iniziata nel 2014 con la sostituzione dell’operazione italiana Mare Nostrum con l’operazione europea Frontex Plus, poi rinominata Triton, fino alla revoca delle missioni Sar oltre le 12 miglia costiere degli Stati membri.
Quando, il 12 aprile 2015, un barcone si capovolse causando 400 morti, e sei giorni dopo un altro naufragio, sempre nel canale di Sicilia, causò un numero di morti ancora superiore, divenne chiaro che occorreva abbandonare l’ipocrita nozione di “crisi” per dare risposte adeguate a uno sterminio in tempo di pace, non episodico ma sistemico. Da allora si sono susseguiti i naufragi, le immagini di bambini “spiaggiati” come relitti, i rapporti internazionali sulle torture e le persecuzioni nei lager libici, sul lavoro schiavo nei centri di detenzione turchi, sull’addestramento di milizie con i fondi europei, quasi si trattasse di un fenomeno inevitabile, una catastrofe naturale incapace di toccare la sfera della politica.
Le bandiere a mezz’asta sul Parlamento europeo avrebbero dovuto essere per le vittime del naufragio dell’Egeo – dal 2014 più di 27.000, secondo l’Oim – per tutti i morti per respingimento, e per noi, cittadini europei, impotenti davanti all’addensarsi di intese feroci per impedire gli arrivi e i “movimenti secondari”, per esternalizzare la politica migratoria ai Paesi vicini, per lasciar gestire accoglienza e asilo a ministri che chiamano i profughi «carico residuale», fallita ogni politica di redistribuzione e solidarietà tra Stati membri e dunque, in definitiva, il senso stesso dell’Unione.
Nessuno è innocente. Risuona nella mente la poesia di T. S. Eliot, La morte per acqua: «Fleba il Fenicio, morto da quindici giorni, dimenticò il grido dei gabbiani, e il flutto profondo del mare e il guadagno e la perdita. Una corrente sottomarina gli spolpò le ossa in sussurri. Gentile o Giudeo, tu che giri la ruota e guardi nella direzione del vento, pensa a Fleba, che un tempo è stato bello e ben fatto al pari di te».