Il Blog di Enzo Bianchi

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​Fondatore della comunità di Bose

Gesù, la salvezza dei cristiani e dei non cristiani

20/07/2023 00:00

Paolo Ricca

Testi di Amici 2023,

Gesù, la salvezza dei cristiani e dei non cristiani

di Paolo Ricca

di Paolo Ricca

Le domande alle quali mi è stato chiesto di rispondere sono due: (L’affermazione di Pietro ora citata è stata messa in dubbio anche in casa cristiana, da chi l’ha interpretata come affermazione arrogante dettata da una presunzione di superiorità del cristianesimo sulle altre religioni, dalla quale invece dovremmo, come cristiani, liberarci. Ma affermare che Gesù è l'unico Salvatore del mondo non implica affatto coltivare o alimentare sentimenti di superiorità, né è in sé un atto di arroganza. È semplicemente una delle convinzioni centrali della fede cristiana. Si può non condividerla, ma è difficile immaginare un cristianesimo che ne prescinda.) Se Gesù è l’unico e definitivo Salvatore, i credenti in altre religioni e i non credenti entrano nella salvezza annunciata e portata a compimento da Gesù? (Karl Barth, Dogmatique, vol, 8, Labor et Fides, Ginevra 1958, p. 498). 

 

La fede in Gesù esclude dal Regno coloro che non credono nella suaparola e nella sua risurrezione? Le domande sono due, ma in realtà sono le due facce di una stessa medaglia perché il problema è uno solo: si tratta di vedere anzitutto se la salvezza annunciata e compiuta da Gesù riguardi l’intera umanità, sia cioè universale, oppure no; in secondo luogo quali e quanti siano per ogni uomo le vie di accesso a questa salvezza; infine si deve vedere quale posto e ruolo abbia nell’intera questione la libertà di Dio. La risposta alle due domande avverrà dunque in tre tempi, il primo più lungo, gli altri due più brevi.

 

1. Universalità della salvezza di Gesù

 

Che Gesù sia il Salvatore di tutti, senza eccezioni né limiti di alcun genere, è convinzione comune degli autori del Nuovo Testamento e di Gesù stesso, che dice, tra le altre cose: «quando sarò innalzato dalla terra, trarrò tutti a me» (Giovanni 12,32); la sua opera di riconciliazione, perdono e pace è avvenuta «per il mondo», cioè per l’umanità intera. Questo è affermato con molta insistenza specialmente nell’evangelo di Giovanni. Giovanni Battista, appena vede Gesù, dichiara: «Ecco l’Agnello di Dio, che toglie il peccato del mondo» (1,29). E l’evangelista scrive: «Dio ha tanto amato il mondo, che ha dato il suo Figlio unigenito, affinché chiunque crede in lui non perisca, ma abbia vita eterna. Dio infatti non ha mandato suo Figlio per giudicare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui» (3,16-17). E più volte Gesù stesso si dichiara «luce del mondo» (8,12; 9,5; 11,9; 12,46). L’apostolo Paolo dice più volte, in diversi contesti, la stessa cosa: «Dio riconciliava con sé il mondo per mezzo di Cristo, non imputando agli uomini [evidentemente a tutti]

le loro colpe, e ha messo in noi [noi apostoli, e, in senso più ampio, a noi cristiani] la parola della riconciliazione». E subito dopo: «Colui che non ha conosciuto peccato, Dio lo ha fatto essere peccato per noi, affinché noi diventassimo giustizia di Dio in lui (II Corinzi 5,20-21). Anche qui «per noi» significa «per noi uomini», senza distinzioni né limiti. [Gesù] è la vittima espiatoria per i nostri peccati, e non soltanto per i nostri [di noi cristiani], ma per quelli di tutto il mondo» (2,2). I Samaritani, evangelizzati dalla loro concittadina, dopo aver trascorso due giorni con Gesù, dicono alla donna: «Non è più a motivo di quello che tu ci hai detto, che crediamo, perché noi stessi abbiamo udito e sappiamo che questi [Gesù] è veramente il Salvatore del mondo» (Giovanni 4,42).

 

È dunque assolutamente chiaro che la salvezza portata da Gesù nel mondo è per il mondo intero, cioè per tutta l’umanità e ogni singola persona umana, senza distinzioni né eccezioni.

 

È dunque più che fondata l’affermazione dell’apostolo Paolo: «Dio vuole che tutti gli uomini siano salvati e vengano alla conoscenza della verità» (1Timoteo 2,4). Qual è la verità? È quella già ampiamente testimoniata dal popolo d’Israele in tutto l’Antico Testamento e che poi è apparsa con ogni chiarezza nella persona e nella storia di Gesù di Nazareth raccontata negli evangeli, dai quali emerge un Dio molto diverso da tutto quello che abitualmente si associa all’idea di divinità: un Dio che ama ciò che noi non amiamo (i peccatori), che perdona ciò che noi non perdoneremmo, che mette al primo posto ciò che noi avevamo messo all’ultimo, un Dio che sceglie ciò che noi avevamo scartato, che chiama «beati» quelli che noi consideriamo infelici o sfortunati, un Dio che accoglie quelli che noi avevamo escluso, un Dio insomma che non piace a tutti e neppure a noi, e alla fine non piace più a nessuno.

 

che finisce su una croce, non tra due discepoli, ma tra due briganti, o come un criminale comune, o come un povero esaltato che pretendeva di cambiare il mondo cambiando l’uomo, o come il re di un regno che non c’è, o come un pericoloso sovversivo. Gli idoli non disturbano, anzi pavesano la città e incantano il popolo; Dio invece disturba sommamente: la sua presenza e la sua voce non vengono tollerate a lungo. Così, la verità che devono conoscere i «tutti» che Dio vuole salvare, è una verità crocifissa. Ma forse non tutti sono disposti a  percorrere fino in fondo quella strada stretta e in salita. Eppure la volontà di Dio è che tutti siano salvati.

 

Di questa volontà divina di salvezza universale ci sono tante altre tracce nel Nuovo Testamento: sarebbe lungo elencarle tutto. Basti qui ricordare la visione dell’Apocalisse secondo la quale intorno al trono di Dio e dell’Agnello, insieme ai 144.000 appartenenti a tutte le tribù dei figli di Israele (12.000 per ogni tribù), c’è «una folla immensa che nessuno poteva contare, proveniente da tutte le nazioni, tribù, popoli e lingue, che stava in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, vestiti di bianche vesti e con delle palme in mano» (Apocalisse 7,9) Né si può dimenticare la descrizione della Gerusalemme celeste, illuminata non più dal sole, ma dalla gloria di Dio e dall’Agnello, che «è la sua luce»; le sue porte non saranno mai chiuse e «le nazioni cammineranno alla sua luce e i re della terra vi porteranno la loro gloria» (21,23-26). Come si vede, è difficile immaginare una prospettiva più universalistica di questa.

 

Molto importante è la motivazione che il Nuovo Testamento dà della universalità della salvezza offerta da Gesù. La motivazione è questa: «Vi è un solo Dio, e un solo mediatore tra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù, che ha dato se stesso come prezzo di riscatto per tutti» (1Timoteo 2,5- 6). È chiaro: la ragione dell’universalità della salvezza sta nell’unicità del Salvatore; c’è solo lui in grado di salvare, quindi la sua salvezza deve valere per tutti; l’umanità non può ricorrere ad altri, perché non ci sono. Come disse Pietro, condotto con Giovanni davanti al Sinedrio nei giorni successivi a Pentecoste: «In nessun altro [fuorché in Gesù Cristo] è la salvezza, perché non vi è sotto il cielo nessun altro nome che sia stato dato agli uomini, per il quale noi possiamo essere salvati» (Atti 4,12). Questa convinzione è un caposaldo del messaggio e della fede cristiana, ed è stato, nei secoli, il movente principale di tutta la vasta e variegata opera missionaria nel mondo.

 

La salvezza - ripetiamolo ancora una volta - è per tutti. Questo però non significa che tutti la gradiscano e l’accettino. Ci sono tanto negli evangeli quanto nelle lettere apostoliche non poche parole (anche di Gesù) che lasciano intendere che non tutti si approprino di una salvezza che è e resta per tutti. Sono due, infatti, i fattori che qui entrano in gioco: il primo è l’elezione divina, il secondo è la volontà umana. Riguardo al primo fattore si possono citare due parole di Gesù e una dell’apostolo Paolo. Le due di Gesù: «Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre, che mi ha mandato» (Giovanni 6,44), e «Molti sono i chiamati, ma pochi gli eletti» (Matteo 22,14). La parola di Paolo: « [L’elezione divina] non dipende né da chi vuole, né da chi corre, ma da Dio che fa misericordia» (Romani 9,16). Quindi: se Dio non ci attira a Cristo, noi, di nostra iniziativa, non lo facciamo. L’elezione divina è un atto di grazia che non dipende da noi, ma da Dio; nessuno la merita, e giunge inattesa e immotivata; chi è eletto non sa perché lo sia, e non sa perché non lo siano altri, né perché non lo siano tutti.

 

Qui entra in campo la libertà di Dio nel chiamare o non chiamare una persona. 

 

Possiamo pensare che sia proprio pensando a questa libertà che Gesù, in due sue parole-chiave, parla di «molti» e non di «tutti». La prima: «Il Figlio dell’uomo è venuto [...] per dare la sua vita come prezzo di riscatto per molti». La seconda, distribuendo il vino della Cena: «Questo è il mio sangue, il sangue del patto, il quale è sparso per molti» (Marco 10,45 e 14,24).

 

«Molti», qui, non vuol dire «non tutti», ma «non pochi». Però Gesù dice «molti», e non «tutti». I «molti» non possono essere «pochi», mentre potrebbero anche essere «tutti». Ma c’è una riserva: non siamo noi a poter sostituire «molti» con «tutti». Noi dobbiamo dire, con Gesù, «molti».

 

Riguardo al secondo fattore - la volontà umana - è quella di chi non permette alla parola di Dio di prendere posto nel suo cuore e nella sua vita e così si tiene lontano dal Dio che gli è vicino. C’è chi non apre a Colui che bussa (Apocalisse 3,20), c’è chi «abbandona il primo amore» (Apocalisse 2,4).

 

C’è, nel racconto evangelico, un personaggio che illustra in modo emblematico il dramma dell’eletto (Giuda era stato scelto da Gesù nel gruppo dei Dodici) che svende la sua elezione consegnando Gesù ai suoi nemici, come Esaù aveva svenduto la sua primogenitura per un piatto di lenticchie. Ma «i doni e la vocazione di Dio sono irrevocabili» (Romani 11,29). Perciò nel suo tradimento con il quale ha tradito anche se stesso, Giuda resta l’eletto, la sua elezione divina «supera, eclissa controlla e governa il suo ripudio, non solo parzialmente, ma completamente, in maniera non solo relativa, ma assoluta».

 

Anche per Giuda vale la parola antica, pronunciata davanti alle rovine di Gerusalemme e del suo Tempio: «Le sue [di Dio] compassioni non sono esaurite. Si rinnovano ogni mattina» (Lamentazioni 3,22). Ma allora: Giuda sarà salvato? 

 

Secondo la giustizia umana, no: il suo tradimento è imperdonabile.

 

Secondo la giustizia divina, che giustifica l’empio («Cristo è morto per gli empi» Romani 5,6, cioè «al posto loro»), sì. Ma è Dio che amministra la sua giustizia, non siamo noi.

 

In conclusione, l’elezione è opera esclusiva e insindacabile di Dio. Che essa debba abbracciare l’intera umanità «è una tesi che non abbiamo il diritto di formulare, per rispetto della libertà di Dio. 

 

La libertà di Dio non è un codice dal quale si possono trarre diritti e obblighi. Come il Dio della grazia non ha alcun obbligo di eleggere e chiamare a sé un solo individuo, così non è in obbligo di eleggere e chiamare a sé tutta l’umanità [...]. Inversamente, la conoscenza della grazia propria della libertà divina deve impedirci di formulare la tesi contraria, cioè di affermare che è impossibile aspettarsi l’allargamento totale e supremo dell’elezione e della vocazione, così da includere l’intera umanità» ( Karl Barth, op. cit. [Nota 1], p. 414).

 

2. Le vie di accesso alla salvezza

 

Se, come s’è detto, non c’è altro nome, tranne quello di Gesù, che sia stato dato agli uomini per il quale noi possiamo essere salvati (Atti 4,12), e se Gesù è «il Salvatore del mondo» (Giovanni 4,42), non possiamo pensare che ci possa essere salvezza all’infuori di Gesù. Questo però non significa che la via cristiana a Gesù sia l’unica che porta a lui. L’unicità e l’universalità della salvezza in Gesù non significa che, prima o poi, tutti debbano diventare cristiani per essere salvati, cioè che non si possa essere salvati se non si diventa cristiani. Gesù Cristo e il cristianesimo non possono essere separati, ma ancora meno identificati.

 

Il cristianesimo si è sviluppato e diffuso in stretto rapporto con la Chiesa, ma tra Gesù e la Chiesa nelle sue varie forme c’è senza dubbio una certa continuità, ma ci sono anche dei «salti», cioè appunto delle discontinuità, non facili da colmare. 

 

Chiedersi quale Chiesa Gesù oggi frequenterebbe, e addirittura se ne frequenterebbe una, riconoscendola come sua comunità, non è una domanda frivola o sconveniente. Dire «Gesù» e Chiesa« significa evocare due realtà, nelle quali le diversità sono forse maggiori delle affinità, le distanze maggiori delle prossimità. 

 

Questo non significa sminuire l’importanza della Chiesa mediante la quale la conoscenza di Gesù e la fede in lui sono giunte fino a noi, ma significa anzitutto non far dipendere il rapporto con Gesù dal rapporto con la Chiesa, ma far dipendere il rapporto con la Chiesa dal rapporto con Gesù e, in secondo luogo, significa affermare che Gesù è una realtà più grande della Chiesa, e quindi ci sono vie d’accesso a Gesù, cioè alla salvezza, diverse da quelle, pur molteplici, della Chiesa.

 

Le vie d’accesso a Gesù che possiamo oggi indicare sono quattro.

 

[a] La prima è ovviamente la via della fede in Gesù, che abitualmente si percorre e vive nella Chiesa. «Credi nel Signore Gesù, e sarai salvato tu e la casa tua» (Atti 16,31). E ancora: «Se con la bocca avrai confessato Gesù come Signore e avrai creduto col cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvato» (Romani 10,9). 

 

Questa è la via maestra per la salvezza. La fede nasce dall’ascolto della parola evangelica della grazia e del perdono; accogliendola si entra in comunione con Gesù stesso, e questa è la salvezza. Non è la fede che salva, bensì Gesù, però è per mezzo della fede che entro in relazione con Gesù e che mi approprio della salvezza.

 

[b] Gesù ha instancabilmente predicato la fede dicendo addirittura: «Chi crede nel Figlio ha vita eterna» (Giovanni 3,36), e l’ha cercata nei suoi discepoli, trovandone sempre «poca», e alla fine nessuna, mentre, a sorpresa, l’ha «trovata» o scoperta in due pagani, in un uomo, un centurione romano (Matteo 8,10), e in una donna sirofenicia (Marco 7,24-30); nell’uomo ha addirittura trovato «una grande fede». La qualità della fede di questi pagani pare persino superiore a quella dei discepoli. Per tutti, comunque, vale l’avvertimento di Gesù: «Non chiunque mi dice: “Signore, Signore!” entrerà nel regno dei cieli [un altro modo per dire: «sarà salvato»], ma chi fa la volontà del Padre mio che è nei cieli». Per fare questa volontà non basta neppure profetizzare e fare miracoli nel nome di Gesù (Matteo 7,21-23).

 

Abbiamo due indicazioni chiarissime su quale sia la volontà di Dio: i Dieci Comandamenti riassunti da Gesù nel doppio comandamento dell’amore (Marco 12,28-34), e le opere descritte in Matteo 25,35-40. Questo significa che anche l’amore, che è «più grande» sia della fede sia della speranza, perché, a differenza di queste due, «l’amore non verrà mai meno» (1Corinzi 13,8), unisce a Gesù e a Dio, come dice e ripete la Prima Lettera di Giovanni: «Dio è amore, e chi dimora nell’amore, dimora in Dio, e Dio dimora in lui» (4,16). Che cos’è questo «rimanere» reciproco di Dio in noi e di noi in Dio se non la perfetta salvezza? Questo amore, nella Prima Giovanni, è inseparabile dalla fede in Dio come amore, ma la grande descrizione del giudizio finale in Matteo 25 ci dice, tra le tante, una cosa molto importante, e cioè che è possibile compiere gesti inequivocabili di autentico amore del prossimo senza conoscerne la segreta origine e qualità divina: sono gesti umani dettati dalla compassione, che però, all’insaputa di chi li compie, hanno a che fare con Dio; in quella che, vista da fuori, è una semplice relazione umana molto bella, è intrecciata una profonda relazione divina. Dobbiamo allora concludere che anche la via dell’amore conduce, attraverso Gesù, a Dio e quindi alla salvezza? La risposta è: Sì.

 

[c] Nella stessa linea or ora tracciata si colloca una parola dell’apostolo Pietro che, sulla base di una visione inviatagli da Dio (Atti 10,10-16), capì, tra le altre cose, che «in qualunque nazione, chi lo teme e opera giustamente, gli è gradito» (Atti 10,35). 

 

Anche qui c’è un accenno alla fede, ma alquanto sfumato, ma ciò che più rende gradita a Dio qualunque persona sono le «opere giuste», quelle cioè che, perché giuste, corrispondono alla volontà di Dio. È un’altra versione della parola di Gesù sul fare la volontà di Dio se si vuole entrare nel suo regno. A Dio importa di più essere ubbidito (consapevolmente o no, come in Matteo 25) che essere celebrato. 

 

Preferisce la giustizia e il diritto piuttosto che le liturgie solenni. Chiunque, in qualunque nazione, cultura o religione o, indipendentemente da ogni religione, compie le opere che Dio gradisce, è gradito a Dio che, sicuramente, lo accoglie volentieri nel suo regno.

 

[d] Una quarta via di accesso alla salvezza fu elaborata già nel II secolo della storia cristiana da alcuni teologi, tra i quali il principale fu Giustino Martire (100 ca.-165 ca.), filosofo di origine pagana, diventato cristiano e morto martire a Roma intorno al 165 d.C. A lui si deve la dottrina della Parola divina (Lògos) diffusa dovunque si coltivino valori e virtù (Lògos spermatikòs).

 

«Tutto ciò che è stato detto di vero da chiunque, è di noi cristiani» dice Giustino (Giustino, Seconda Apologia, 13), non nel senso che ci appartiene, ma nel senso che l’azione della Parola divina, il Lògos, ha agito ben oltre i confini della comunità cristiana.

 

Perciò, secondo Giustino, Socrate ed Eraclito, come del resto Abramo, erano cristiani quanto meno potenziali, anche se incompleti o parziali, perché la Parola divina aveva diffuso dei «semi di Cristo» anche fra loro, cristianizzando, almeno in parte, quel mondo prima ancora che venisse evangelizzato. In questa ottica lo sguardo sul mondo allora considerato pagano, e comunque non cristiano, cambia completamente. Il mondo che non conosce Dio non è senza Dio perché Dio non è senza il mondo, anzi egli agisce in esso mediante il Lògos. Proprio perché Gesù è il Salvatore del mondo e Dio, in lui, ha riconciliato il mondo a sé, possiamo vedere il vuole saperlo. In una prospettiva di questo genere i contenuti del dialogo con le altre religioni cambia completamente e può essere impostato in modo nuovo rispetto al passato. Questo non significa relativizzare la fede cristiana ma, al contrario, scoprirne delle tracce anche là dove non ci aspetteremmo di trovarne. Un po’ come Gesù che trova «una grande fede» proprio in due pagani.

 

3. La libertà di Dio

 

Della libertà di Dio abbiamo già parlato svolgendo il punto [a]. È una libertà che si manifesta perfettamente nel soffio dello Spirito, che non sai né da dove viene, né dove va (Giovanni 3,8): è imprevedibile e incontrollabile; appunto, è libero. Come è libero di chiamare chi vuole, così Dio è libero di salvare chi vuole. La libertà di Dio è certamente libertà di amare (Egli è «Colui che ama nella libertà»[ Karl Barth, Dogmatique, vol. 7, Labor et Fides, Ginevra 1957, pp. 1-69]), quindi anche libertà di salvare, la libertà più grande e gloriosa che ci sia. Perciò, la parola finale sul destino ultraterreno di ogni persona, a cominciare da noi stessi, spetta a Dio.

 

Questo ci libera da ogni ansia e ci rende più liberi, perché liberati da qualunque giudizio sugli altri e su noi stessi. Creati a immagine di Dio, anche la nostra libertà è chiamata a riflettere qualche barlume della sua. Sarebbe bello, ad esempio, se la vivessimo soprattutto come libertà di amare.

 

Potremmo allora apprezzare ancora di più lo splendido poema di Paul Eluard sulla libertà, che si conclude con questi versi:

 

E per il potere di una parola

Ricomincio la mia vita

Sono nato per conoscerti

Per chiamarti per nome:

Libertà 

 

(L’originale dice“Et par le pouvoir d’un mot/Je recommence ma vie/Je suis né pour te connaître/Pour te nommer/Liberté).