Intervista a Enzo Bianchi, a cura di Paolo Griseri
L'ultima sera, nel castello vescovile di Albiano, sulla Serra di Ivrea, a vegliarlo sono stati il vescovo di Biella, monsignor Farinella, e Enzo Bianchi, fondatore della Comunità di Bose. In serata è arrivato anche l'attuale vescovo di Ivrea, Edoardo Cerrato.
Bianchi, come sono state le ultime ore di Bettazzi?
«Monsignor Bettazzi è morto in serenità. Possiamo dire che il suo modo di morire è stato l'ultimo messaggio di pace della sua vita. È stata l'epifania di un uomo che è sempre stato di pace senza rancori e senza nostalgie, sicuro del suo messaggio».
Quali le sue ultime parole?
«Non parlava più. Ma capiva. Annuiva quando il vescovo di Biella leggeva le beatitudini. Ha ascoltato con attenzione quando gli ho letto le preghiere dei morenti. Era lucido e consapevole che si stava compiendo il suo destino».
Qual è la sua eredità spirituale?
«È l'eredità del Concilio Vaticano cui lui aveva partecipato. La scelta dei poveri, l'impegno per la pace, certo. Ma soprattutto la libertà del confronto nella chiesa».
Messaggio difficile da applicare…
«Sia chiaro: nessuno dei pontefici ha mai messo in discussione gli insegnamenti del Concilio.
Diciamo che Giovanni Paolo II e in parte Benedetto XVI hanno fornito interpretazioni restrittive di quel messaggio. Non tanto sui temi della povertà e della pace (pensiamo che cosa ha fatto Giovanni Paolo II per la pace nel Golfo) quanto sul nodo della libertà di confronto nella chiesa».
Monsignor Bettazzi ha pagato per la sua idea di libertà nella Chiesa?
«Certamente. Ha pagato perché non gli sono stati riconosciuti, all'interno della Chiesa, i meriti che aveva».
Chi non glieli ha riconosciuti?
«Mah, c'è una burocrazia a Roma che frena gli stessi messaggi che vengono dai Papi. Succede anche oggi con Francesco. Vedremo ora se il sinodo che si apre a ottobre supererà questo problema».
A Bettazzi che cosa si rimproverava?
«Immagino la sua franchezza, la sua libertà di pensiero che non sempre si allineava con quella dei vescovi italiani. Colpisce che un uomo che è vissuto cristianamente, un uomo mite ma fermo, non certo un eretico rivoluzionario, che viveva in povertà in un castello fatiscente della diocesi di Ivrea, abbia subito questa emarginazione».
Qual è stato il suo rapporto con la Comunità di Bose?
«Fin dall'inizio ci ha incoraggiato. E non era facile. A metà degli anni Sessanta, quando non avevamo nessuna approvazione del vescovo di Biella che ci escludeva, lui veniva a trovarci e a confrontarsi con noi».
E in anni più recenti, quelli della crisi della Comunità?
«Lui ha sempre cercato con impegno una riconciliazione. Posso dire che è stato, insieme al cardinale Martini, il vescovo più vicino a noi. E anche nei due anni del mio esilio a Torino veniva a pranzare a casa mia. È stato sempre di grande aiuto per la nostra comunità».