di Jean-Claude Thomas
Il Dio della Bibbia e dei Vangeli è davvero un Dio folle d’amore e di tenerezza. Si è lontanissimi dall’immagine di Dio data dalla maggior parte delle celebrazioni, che cominciano con “Riconosciamo che siamo peccatori!”, “Confesso a Dio...”. No, niente di tutto questo con il padre. Ma due braccia gettate attorno al collo e dei baci. Come ci mostra la parabola del figlio perduto e ritrovato.
Un amico, Georges Kowalski, diceva: “Amare è avere in riserva per l’altro buone sorprese”. Mi vien voglia di dire: “Ciò che è proprio di Dio, che nessuno ha visto né può vedere, è avere in riserva per noi buone sorprese. Così Dio è amore”. Ma non posso parlarne che con stupore. Sorpresa ultima che ci vedrà abbagliati e affascinati per sempre. Gregorio di Nissa diceva dell’eternità: “Andremo da inizio a inizio attraverso inizi che non hanno mai fine”. Senza poterci rappresentare niente perché, come per molti nostri contemporanei, le immagini ci mancano e le domande abbondano, ma ciò che viviamo già può darcene il gusto, ravvivarne il desiderio. Le sorprese vissute, quelle che hanno fatto nascere in noi una gioia intensa, ci fanno intravvedere qualche cosa di una gioia eterna.
L’Abbé Pierre diceva: “La vita è il tempo che ci è dato per poter alla fine riconoscere l’amore quando si rivelerà a noi”.
La sorpresa finale non è la sola. Se oso crederci, è che la mia vita, questo cammino vivendo con altri felicità e sofferenze, è costellata di molteplici momenti di stupore. In particolare davanti a quei doni che svelano qualcosa del volto di Dio. Molti incontri umani ne sono portatori e ci fanno sussultare di fronte a quello svelamento. Ogni volta mi lasciano a lungo sorpreso e turbato, con il desiderio rinnovato di proseguire il cammino.
prossimità
Sorgente di queste sorprese sono sia grandi che piccoli, spesso senza saperlo. Soprattutto dei piccolissimi, con i loro balbettii sulla parola di Dio, le loro intuizioni o le loro parole tanto semplici.
Gesù già benediva il Padre per quel sapere che non è quello dei sapienti e dei saggi.
Un esempio: in Cile, in una comunità di quartiere con la quale Saint Merry ha intessuto dei legami, uomini e donne, a turno, introducono l’eucaristia della domenica con una preghiera personale. Una di loro, Gloria, ha un giorno iniziato la preghiera con queste parole: “Mi querido Dios – Mio caro Dio”, esprimendo in maniera semplice e diretta una tenerezza che fa pensare al modo di pregare di Gesù. Anche lui usava parole che non erano abituali: osava rivolgersi al Padre dicendo “Abba”, al punto da scandalizzare i suoi contemporanei. Ma non è precisamente questa la relazione, l’intimità che ci fa condividere?
scoperte
Preparare insieme, in più persone, una celebrazione è frequentemente un cammino di scoperta.
Ognuno dei partecipanti porta in sé un’immagine di Dio che è al punto di convergenza tra la sua memoria e la sua esperienza, le sue domande e le sue intuizioni. Il movimento verso la novità di Dio inizia quando queste immagini si confrontano le une con le altre insieme alla Parola ricevuta insieme. Ciò che è detto non è mai subito soddisfacente, ma apre uno spazio in cui le comprensioni possono scontrarsi, un po’ come delle pietre focali, facendo sprigionare una scintilla, una luce nuova.
Vorrei aggiungere che perfino il catechismo, al di là delle immagini stereotipate che gli associamo, viene spesso proposto oggi come un itinerario spirituale da vivere insieme, adulti e bambini, un cammino di scoperta da percorrere basandosi su solide basi bibliche. Si comincia con domande alle quali i più esperti sono tentati di rispondere subito, con il rischio di limitarsi a ripetere ciò che è conosciuto. Nel Vangelo, Gesù, quando gli vengono poste delle domande, preferisce spesso rilanciare con un’altra domanda, portando i suoi interlocutori a riflettere, a cercare da soli, a guardare lontano.
Vivo ognuno di questi momenti di confronto, e la loro parte di incertezza, con la speranza di un altro svelamento. Li vivo come un cammino verso un’altra immagine di Dio. Talvolta, uno dei partecipanti, con sorpresa, scopre tale immagine dietro la propria parola, come una bolla di luce che viene dal più profondo di sé. Quante volte siamo usciti da un’esperienza con sorpresa ed emozione per ciò che ci era stato dato di intravedere, gli uni grazie agli altri, al cuore di questa Parola. Penso in particolare a ciò che può sprigionarsi da quelle meraviglie che sono le parabole: si rivelano inesauribili. Come quella del figlio prodigo, che invita sempre a chiedersi: “Ma chi è questo padre, per accogliere così questo figlio che torna verso di lui?”.
Si rimprovera a Gesù di accogliere i peccatori, e di mangiare con loro. Come spiegazione, Gesù racconta la storia di un uomo “che aveva due figli”. Il più giovane chiede al padre la sua parte di eredità, se ne va e spreca il denaro conducendo una vita disordinata. Nella miseria e con la pancia vuota, ripensa alla casa del padre.
Riflette. “Tanti operai da mio padre hanno pane in abbondanza, e io, qui, muoio di fame! Tornerò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato contro il cielo e contro di te. Non merito più di essere chiamato tuo figlio. Prendimi come uno dei tuoi operai” (Luca 15,17-18).
Il figlio prepara le sue parole di richiesta di asilo e di perdono. Ma le cose andranno in maniera molto diversa nel momento cruciale della storia attraverso la qule Gesù esprime il senso di ciò che fa, della sua prossimità con i “peccatori” che scandalizza i benpensanti del tempo.
Che cosa farà il padre? Come accoglierà quel figlio? Lo getterà fuori, dicendogli: “Hai solo quello che ti meriti! Ben ti sta!”? Punterà contro di lui un dito accusatore, dicendogli: “Pentiti!” e lo obbligherà a mettersi in ginocchio? Lo convocherà davanti al tribunale familiare? O gli concederà un posto dove espiare la sua colpa?
Niente di tutto questo! Gesù dice: “Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: «Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio». Ma il padre disse ai servi: «Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l'anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato». E cominciarono a far festa” (Luca 15, 20-24).
Il Dio della Bibbia e dei Vangeli è davvero un Dio folle d’amore e di tenerezza. Si è lontanissimi dall’immagine di Dio data dalla maggior parte delle celebrazioni che cominciano con “Riconosciamo che siamo peccatori!”, “Confesso a Dio...”. No, niente di tutto questo con il padre.
Ma due braccia gettate attorno al collo e dei baci. E un capovolgimento totale di situazione: una festa, un festino, il vestito più bello e un anello al dito!
Nella parabola, il figlio maggiore è il primo a rendersi conto di questo contrasto estremo e sorprendente. È molto sconcertante per lui che è rimasto bravo bravo e che, al contrario del fratello, ha fatto tutto ciò che doveva. Con veemenza rimprovera al padre quell’atteggiamento e quell’accoglienza fuori luogo.
“Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. Quello gli rispose: «Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo». Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. Ma egli rispose a suo padre: «Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso». Gli rispose il padre: «Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo, ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato»». (Luca 15,25-31)
Quando vedremo nelle nostre chiese l’immagine di questo padre che si getta al collo del figlio perduto e lo copre di baci? Non è forse questa l’immagine che Gesù presenta come riferimento?
Non è forse così che spiega il suo atteggiamento verso i rifiutati, che spesso si considerano essi stessi meno di niente?
Questa parabola ci presenta l’immagine divina del Padre, quel Padre di cui Gesù esprime direttamente con i suoi atti l’amore e la misericordia. Rembrandt lo aveva compreso bene, offrendo alla nostra meditazione la figura di questo padre che pone le mani sulle spalle del figlio perduto e ritrovato, in un meraviglioso quadro del museo dell’Ermitage a San Pietroburgo.
Come diceva Joseph Moingt, si tratta di superare continuamente “il conosciuto” di Dio: “Dio ci lascia il tempo e la cura di decifrare il suo vero volto attraverso la carne di Gesù. E Gesù ci lascia cercare Dio sul cammino che ci traccia con il suo Vangelo. Perché la rivelazione di Dio ha sempre bisogno di essere purificata dalle rappresentazioni antiche con le quali la riceviamo e dalle rappresentazioni nuove di cui continuiamo a rivestirla nel corso del tempo. E l’evoluzione dei tempi ci provoca ogni volta a reinterrogare la rivelazione a partire da domande nuove… Spesso si può essere dispiaciuti che la Chiesa non abbia saputo maggiormente convertire “il conosciuto” di Dio, offerto da ogni tradizione religiosa, nella rivelazione del Dio di Gesù Cristo”.