di Adalberto Mainardi*
La Pentecoste di Alessandria
In un tempo in cui sembra che non solo gli stati ma anche i popoli e le culture abbiano disimparato l’arte di comprendersi, un piccolo segno di ostinata fiducia nel dialogo è il documento approvato ad Alessandria d’Egitto dalla Commissione mista internazionale per il Dialogo teologico tra la Chiesa cattolica e la Chiesa ortodossa (nel suo insieme). L’assemblea plenaria della commissione era ospitata dal patriarca Theodoros di Alessandria dal 1 al 7 giugno 2023, nei giorni della Pentecoste ortodossa (quest’anno il 4 giugno). Il nuovo documento approfondisce un tema di vitale importanza non solo per il dialogo bilaterale, ma per l’ecclesiologia stessa delle due chiese: il rapporto tra Sinodalità e Primato nel secondo millennio e oggi. Si tratta della prosecuzione del lavoro intrapreso dalla commissione dopo il documento di Chieti nel 2016, che si era soffermato sullo stesso nodo problematico, ma considerando solo il primo millennio (Sinodalità e primato nel primo millennio: verso una comune comprensione nel servizio all’unità della chiesa). Non è un caso che il Documento di Alessandria si apra ripetendo il presupposto ecclesiologico del documento di Chieti, cioè che «la Chiesa una esisteva come molte Chiese locali» (Chieti, 2; Alessandria, 0.1). In queste poche parole è racchiuso il paradosso della divisione dei cristiani all’inizio del terzo millennio: le chiese locali d’oriente e d’occidente non si riconoscono più reciprocamente come tali e hanno cessato di essere le une per le altre la Chiesa una, santa, cattolica e apostolica.
Se il riferimento prossimo del Documento di Alessandria è quello di Chieti, il suo presupposto remoto è il Documento di Ravenna (Conseguenze ecclesiologiche e canoniche della natura sacramentale della chiesa: comunione ecclesiale, conciliarità e autorità, Ravenna, 13 ottobre 2007), che tirava le somme della prima fase del dialogo teologico (1978-1988), sul fondamento della comune comprensione della natura sacramentale della chiesa, riguardo alle strutture del governo ecclesiale.
Il Documento di Alessandria, riferendosi ancora a Chieti, ricorda che nel primo millennio «la comunione (koinonía) dello Spirito santo (cfr. 2 Corinzi, 13, 13) era vissuta sia in seno a ogni Chiesa locale sia nelle relazioni tra di loro come unità nella diversità. Sotto la guida dello Spirito (cfr. Giovanni, 16, 13) la Chiesa sviluppò modelli d’ordine e pratiche varie, conformemente alla sua natura di “popolo che fonda la sua unità nell’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito santo” (Cipriano, De oratione dominica 23)» (Chieti 2; Alessandria 0.1).
Effettivamente l’unità della chiesa è opera dello Spirito Santo, non di una negoziazione tra le parti; ma lo studio della storia delle chiese è necessario per documentare dove e come questa azione viene accolta e favorita, e gli snodi in cui essa viene contraddetta. È quello che si è sforzata di fare la commissione teologica ad Alessandria, riprendendo le fila di un lungo e intenso lavoro storico e teologico. Il Documento di Chieti, studiando la chiesa antica, aveva individuato nell’interazione tra primato e sinodalità lo strumento concreto, operativo per così dire, per preservare l’unità della chiesa salvaguardando la ricchezza molteplice e diversa dei doni dello Spirito Santo. Nella chiesa del primo millennio «il legame di unità era evidente nelle “molteplici riunioni dei vescovi in concili o sinodi per discutere in comune questioni di dottrina (dogma, didaskalia) e di pratica” (Chieti, 11) […] A livello universale, la comunione era favorita dalla cooperazione tra le cinque sedi patriarcali, ordinate secondo un ordine preciso o taxis (cfr. Chieti, 15). Nonostante le numerose crisi, l’unità della fede e dell’amore è stata mantenuta attraverso la pratica della sinodalità e del primato (cfr. Chieti, 20)» (Alessandria, 0.2).
Il fine del Documento di Chieti era di «giungere a una comprensione comune» delle «realtà interrelate, complementari e inscindibili» di primato e sinodalità (Chieti, 5), poiché il loro realizzarsi nella storia delle chiese in comunione nel primo millennio poteva essere una guida per la ricerca dell’unità nel terzo millennio. È da questo punto che prende avvio il Documento di Alessandria.
Rileggere insieme una storia travagliata
Dopo Chieti alla commissione mista si aprivano due opzioni: analizzare le divergenze dottrinali tra cattolici e ortodossi su un piano prettamente teologico (la processione dello Spirito Santo, la concezione del purgatorio, la figura della Madre di Dio, il primato petrino), o proseguire con lo studio storico degli sviluppi del rapporto tra primato e sinodalità. Si è deciso di dare la precedenza alla rilettura comune della storia di divisione e incomprensione del secondo millennio, quel lungo tempo di separazione tra oriente e occidente che padre Congar caratterizzava con il termine di estrangement: non la rottura su un punto specifico di dottrina, ma il progressivo allontanamento di due modi di pensare, di due lingue, di due ecclesiologie. In questa scelta, la commissione ha guardato anche alla metodologia di altri gruppi non ufficiali di dialogo teologico, come il gruppo di lavoro misto ortodosso-cattolico Sant’Ireneo, che nel 2018 aveva pubblicato l’esito di uno studio decennale sulla relazione tra primato e sinodalità (Servire la comunione, Graz 2018).
Ripercorrendo insieme la loro storia, cattolici e ortodossi hanno cercato evidenziare le diverse dinamiche del rapporto tra primato e sinodalità nella chiesa cattolica e nelle chiese ortodosse. Il valore del Documento di Alessandria non sta in una nuova ipotesi storiografica sulle relazioni tra chiesa cattolica e chiesa ortodossa, ma nel tentativo di rileggere insieme una storia che il documento stesso definisce “travagliata”, e che è anche una storia di ferite e risentimenti. È un rinnovato sforzo di comprensione, di dirsi con e insieme all’altro, di offrire agli uni e agli altri «la gradita opportunità di spiegarsi […] in vari punti del percorso» (Alessandria, 0.3)
Il documento si divide in quattro ampie parti: la prima, dal 1054 al Concilio di Ferrara-Firenze (1438-1439), è dedicata al formarsi della teologia occidentale del papato nel basso medioevo, ai sinodi palamiti della chiesa ortodossa nel XIV secolo e ai falliti tentativi di unione; la seconda agli sviluppi ecclesiologici in oriente e occidente dalla Riforma al XVIII secolo; la terza al XIX secolo, con al centro il Vaticano I e la formazione di altre chiese ortodosse autocefale; la quarta, infine, al ritorno alle fonti bibliche e patristiche (ressourcement) e al riavvicinamento tra ortodossi e cattolici tra XX e XXI secolo.
Non è naturalmente possibile rendere conto qui in dettaglio del percorso storico-teologico tracciato dal documento. Tuttavia, è importante segnalare i passi salienti, che decostruiscono alcune immagini falsate fabbricate nei secoli dalla controversistica. Nella formazione della dottrina occidentale del papato, viene messo in luce il ruolo della riforma gregoriana, intrapresa da Gregorio VII (1073-1085). La chiesa d’occidente vuole riformarsi, ed essere indipendente dal potere dell’imperatore (1.2-1.4). È in questo contesto che nei secoli successivi si giunge a un’esaltazione del ruolo del pontefice come «capo che governa l’intero corpo ecclesiale» (1.4). Tuttavia, le strutture sinodali (come il sinodo di Roma) continuavano a essere attive. Il concistoro che nel corso del XII secolo sostituì il sinodo, era composto dei membri del clero romano (i cardinali), di cui sette erano vescovi delle sedi suburbicarie della provincia di Roma. È il concistoro a eleggere il papa, cioè la chiesa di Roma elegge il proprio vescovo: questo dato della tradizione resta di fondamentale importanza per le relazioni tra la chiesa di Roma e le altre chiese (1.6). Il papa è anzitutto il vescovo di Roma, anche se i canonisti ne esaltano il ruolo, attribuendogli come successore di Pietro la pienezza del potere (plenitudo potestatis) e la sollecitudine per tutte le chiese (sollicitudo omnium ecclesiarum) (1.4).
Un’altra dolente pagina riletta insieme è quella delle crociate, in particolare la quarta (1204) con il sacco di Costantinopoli da parte dei crociati, e il conseguente stabilimento di una gerarchia latina in oriente: una ferita ancora aperta per l’ortodossia, che solo un cammino di purificazione della memoria e di pieno riconoscimento dell’ecclesialità dell’altra chiesa potrà risanare.
È significativo che i tentativi di ricomporre lo scisma passassero per la via conciliare: il secondo concilio di Lione (1274) e il concilio di Ferrara-Firenze (1438-1439). Il documento di Alessandria offre una valutazione contestuale della mancata ricezione di queste unioni. È interessante notare che sono messe in rilievo le tre condizioni, incluse nel decreto del concilio fiorentino, sotto le quali i greci accettarono l’affermazione del primato papale: 1) doveva essere secondo «gli atti dei concili ecumenici e nei sacri canoni»; 2) la menzione delle altre sedi della pentarchia e 3) la conferma dei privilegi e dei diritti dei patriarchi (1.18). Questo significa che la comprensione esclusivamente latina del primato ― come pienezza del potere (plenam potestatem) del successore di Pietro su tutta la chiesa ― avrebbe dovuto essere interpretata alla luce del suo esercizio definito dai concili della chiesa indivisa del primo millennio. Si tratta di un’importante indicazione di metodo ancora attuale, che non ebbe seguito per il precipitare della situazione storica con la presa ottomana di Costantinopoli (1453) e il prevalere della concezione latina del primato. Il concilio di Firenze fu così alla base delle successive unioni con le chiese orientali cattoliche, ma venne rigettato come «nullo e vuoto» dalla chiesa ortodossa nel concilio di Costantinopoli del 1484.
Nei secoli successivi la pratica della sinodalità non fu mai abbandonata dalla chiesa occidentale, mentre l’esercizio di una funzione primaziale all’interno dell’ortodossia dovette confrontarsi con il sorgere di nuove chiese autocefale nel corso del XIX secolo: la Chiesa di Grecia (1850), la Chiesa serba (1879), la Chiesa romena (1885), la Chiesa bulgara (1872: quest’ultima non viene citata nel documento di Alessandria, perché fu riconosciuta da Costantinopoli solo nel 1945).
Nella terza parte del documento, dedicata agli sviluppi ecclesiologici nell’Ottocento, ha un particolare rilievo la rilettura comune del concilio Vaticano I, che contiene le definizioni dogmatiche più problematiche per il dialogo ortodosso-cattolico. Anche qui è da apprezzare la valutazione contestuale di questo concilio, che mette in luce il momento storico critico per la chiesa d’occidente. Sono inoltre precisati i limiti posti dal concilio all’infallibilità papale (che non deve essere intesa in senso personale!): il fatto che le dichiarazioni ex cathedra (e solo quelle espressamente tali) siano irreformabili «non per il consenso della chiesa», non significa affatto che possano esserlo «senza il consenso della chiesa» (anzi il papa è espressamente tenuto a conformarsi alla Scrittura, ai concilii ecumenici e alla tradizione della chiesa), ma semplicemente che non necessitano di essere ratificate (come voleva il quarto articolo gallicano del 1682). Si tratta di un punto spesso occasione di fraintendimento nei rapporti ortodosso-cattolici. Riguardo alla giurisdizione “ordinaria” e “immediata” del papa definita dal Vaticano I, il Documento di Alessandria cita l’autorevole interpretazione di Pio IX nella lettera ai vescovi tedeschi del 1875, in cui il papa smentisce nel modo più deciso che il nuovo dogma sospenda le prerogative dell’episcopato, che al pari del primato «è di istituzione divina». La commissione ha cercato di sgombrare il campo dagli equivoci di un’interpretazione massimalista del Vaticano I, per concentrare il lavoro teologico sui reali punti di divergenza. Il documento di Alessandria riconosce infatti che «l’insegnamento del Vaticano I sul primato papale di giurisdizione su tutta la Chiesa e sull’infallibilità papale […] è per gli ortodossi un grave allontanamento dalla tradizione canonica dei padri e dei concili ecumenici, perché oscura la cattolicità di ciascuna chiesa locale» (3.10, corsivo mio). È proprio qui il nodo irrisolto del dialogo cattolico-ortodosso, che si riverbera anche nelle difficoltà interne sia alla chiesa cattolica sia alle chiese ortodosse: il rapporto delle chiese locali tra di loro e il modo in cui in esse si manifesta la cattolicità della chiesa. È il problema ecclesiologico del terzo millennio.
Luci e ombre
La parte del documento dedicata al XX e XXI secolo traccia un parallelismo tra il cammino conciliare della chiesa cattolica con il concilio Vaticano II, e quello delle chiese ortodosse con la lunga, quasi secolare preparazione del concilio di Creta, celebrato nel 2016. Un tratto che accomuna i due concilii, frutto del “ritorno alle fonti” (ressourcement) del secolo scorso, è l’attenzione all’ecclesiologia eucaristica, «che vede la chiesa locale riunita intorno al suo vescovo per la celebrazione dell’Eucaristia come una manifestazione della chiesa intera (cf. Ignazio, Agli Smirnesi 8)» (4.4). Si riconosce poi come il concilio Vaticano II abbia integrato e completato l’insegnamento del Vaticano I equilibrandolo con la dottrina della collegialità episcopale: il collegio dei vescovi in unione con il suo capo esercita la suprema e piena autorità sulla chiesa e gode dell’infallibilità nella proclamazione della dottrina (4.7, con rimando a Lumen gentium 22 e 25).
Vengono poi riprese (in 4.9-10) le importanti aperture sul tema del primato e della sinodalità, rispettivamente, di Giovanni Paolo II e papa Francesco: da un lato il riconoscimento che la forma dell’esercizio del primato – senza rinunciare alla sua missione ― possa e debba cambiare, grazie anche a una riflessione condivisa con le altre chiese, per «realizzare un servizio di amore riconosciuto dagli uni e dagli altri» (Ut unum sint 95); dall’altro l’insistenza di papa Francesco sul cammino sinodale come via di tutta la chiesa, in cui i cattolici sono invitati a mettersi alla scuola dei fratelli ortodossi (Evangelii Gaudium 246).
Il documento di Alessandria è significativo per quello che dice ma anche per quello che non dice o non riesce a dire. Così nella seconda parte vengono trattate le unioni con Roma dei secoli XVI-XVIII, che paradossalmente hanno creato divisioni e conflitti in seno alle chiese ortodosse, aprendo ferite non ancora rimarginate. Tuttavia, non c’è alcun cenno al Documento di Balamand (1993), di cui quest’anno cade il trentesimo anniversario, nel quale la stessa commissione di dialogo aveva cercato di indicare una via con concrete indicazioni pratiche per risanare i violenti conflitti sorti nei primissimi anni Novanta, dopo la legalizzazione delle chiese greco-cattoliche soppresse dai regimi comunisti in Europa orientale.
Il Documento Balamand riconosceva il pieno diritto all’esistenza delle chiese orientali cattoliche, ma rifiutava il metodo e il modello cosiddetto dell’“uniatismo” «per la maniera in cui cattolici e ortodossi si riconsiderano nel loro rapporto con il mistero della Chiesa e si riscoprono come Chiese sorelle» (Balamand, 12). La nozione di “chiese sorelle” (cf. Unitatis redintegratio 14), è stata contestata da parte ortodossa ma anche da parte cattolica è stata messa in discussione (Nota della Congregazione per la Dottrina della Fede sull’espressione “Chiese sorelle”, 2000): solo chiese locali in comunione tra loro possono definirsi “sorelle”; ma chiesa cattolica e chiesa ortodossa non sono (ancora) in comunione e il termine non può essere (per ora) usato in senso stretto, o ecclesiologicamente preciso.
Il documento di Balamand fu criticato dai greco-cattolici e non fu ricevuto da buona parte delle chiese ortodosse, portando uno stallo nel dialogo bilaterale durato fino al 2006, quando il lavoro riprese dove era stato interrotto, consentendo la pubblicazione dell’importante documento di Ravenna. Il problema dei rapporti tra ortodossi e chiese greco-cattoliche ha poi trovato soluzioni pratiche nel quadro delle leggi civili dei diversi paesi, ma è scomparso dall’agenda ecumenica, per affiorare rapsodicamente, come nella Dichiarazione comune di Papa Francesco e del Patriarca Kirill di Mosca dell’Avana (12 febbraio 2016, al nr. 25), o in sessioni di dialogo non ufficiale (Comunicato del Gruppo di lavoro Sant’Ireneo, Balamand 2023).
Non tutte le chiese ortodosse erano rappresentate ad Alessandria. Oltre alla chiesa bulgara, ritiratasi dal dialogo con i cattolici sin dal 2009, non erano presenti il Patriarcato di Mosca, la Chiesa ortodossa serba e il patriarcato di Antiochia: un’assenza che rende difficile la ricezione futura del documento. La Chiesa ortodossa russa, come è noto, dal 2018 si è ritirata da tutti i dialoghi co-presieduti da un membro del Patriarcato ecumenico, a causa del coinvolgimento del patriarca Bartolomeo nel processo che ha portato all’autocefalia della Chiesa ortodossa d’Ucraina. All’assenza dal tavolo di dialogo è corrisposta l’elaborazione di una linea teologica alternativa. Nel corso dell’Assemblea dei vescovi russi, presieduta dal patriarca di Mosca Kirill il 19 luglio 2023, il metropolita Ilarione (Alfeev) di Budapest ha presentato il documento della commissione biblico-teologica sinodale, che espone la posizione di Mosca sul primato e critica duramente, anche sul piano personale, l’azione del patriarcato ecumenico (Sulla distorsione della Dottrina ortodossa della Chiesa negli atti della Gerarchia del Patriarcato di Costantinopoli e nei discorsi dei suoi rappresentanti). La tesi principale è che nella chiesa ortodossa non può esistere un primate che abbia privilegi speciali rispetto agli altri capi delle chiese locali. Il patriarca di Costantinopoli gode di un semplice primato d’onore (che Mosca intende nel senso di “onorifico”), senza altre prerogative se non quelle che riceve dal consenso delle chiese ortodosse locali. Secondo questa prospettiva, lo stesso concilio panortodosso di Creta, non avendo ottenuto l’adesione di tutte le chiese ortodosse locali, deve essere derubricato in semplice assemblea episcopale interortodossa. Come si vede, l’articolazione tra prerogative primaziali e prassi sinodale è un problema della più grande attualità, che tocca trasversalmente sia cattolici sia ortodossi.
Il Documento di Alessandria ricorda come la terminologia di “chiese sorelle” fosse stata utilizzata da Atenagora e Paolo VI in riferimento alle due chiese locali di Roma e Costantinopoli (4.8). Chiese “sorelle” non è l’espressione di una definizione canonica, ma il riconoscimento pieno di stupore dell’agape fraterno, di una sincera sollecitudine delle chiese le une per le altre, del desiderio di vivere l’unità voluta dal Signore.
La spaccatura che attraversa l’ortodossia oggi, esacerbata dalla guerra in Ucraina, interroga anche la chiesa cattolica. Se cattolici e ortodossi sapranno di nuovo riconoscersi reciprocamente come chiese sorelle, chiamate ad affrontare gli stessi problemi e a testimoniare la stessa speranza, senza dimenticare il cammino storico doloroso, per gli uni e per gli altri, delle chiese orientali unite a Roma, potranno credibilmente impegnarsi sulla via della comunione e dell’unità, che non è mai semplicemente garantita dalle strutture canoniche, ma deve essere sempre ricercata e voluta; potranno invocare insieme il dono della pace dal Signore della pace.
*La Nuova Europa 4 Agosto 2023
https://www.lanuovaeuropa.org/chiesa/2023/08/04/la-pentecoste-di-alessandria-lecumenismo-vive/