La Repubblica - 21 Agosto 2023
di Enzo Bianchi
Ancora una volta sono stati pubblicati dati aggiornati sulla pratica religiosa (cattolica!) nel nostro paese. Le ricerche sono state essenzialmente due e significativamente la lettura dei risultati risente dell’ideologia di chi ha condotto l’indagine. Anche se è meno attestata l’interpretazione dei sociologi di corte, si coglie una certa volontà di rassicurazione sulle condizioni della fede in Italia, oppure, al contrario, si mette in evidenza la catastrofe che incombe sul futuro della chiesa.
In ogni caso si registra un vertiginoso calo della frequenza dei cattolici alla messa domenicale: secondo le inchieste per campione tra il quindici e il diciannove per cento degli intervistati dichiara di partecipare con una certa continuità, ma a sentire alcuni vescovi che hanno fatto una vera “conta” dei fedeli la percentuale sarebbe molto più bassa e nel centro-nord dell’Italia non si raggiungerebbe il dieci per cento.
Ciò che stupisce è che in questi vent’anni del terzo millennio il numero dei praticanti assidui si sia dimezzato e quindi sia raddoppiato il numero di quelli che non partecipano mai alla liturgia cattolica.
Molti, con fin troppa superficialità, hanno intravisto nella chiusura delle chiese avvenuta nel lungo periodo di loockdown la causa di tale crollo, ma in realtà altre e più profonde sono le cause e vengono dal passato.
Armando Matteo, teologo attento non solo al dato sociologico ma anche al vissuto della chiesa, già dieci anni fa osservava che i giovani sono “la chiesa che manca” e oggi è ovunque attestato l’abbandono della vita sacramentale dopo aver ricevuto il sacramento della cresima, perché neppure il 10 per cento continua a frequentare la messa.
Perché tale disaffezione tra i giovani? Perché questa interruzione nella trasmissione della vita cristiana? Più volte ho risposto a queste domande, con una posizione a dire il vero scarsamente condivisa, ma a mio parere la causa è duplice: da un lato il venir meno della fede (non della religiosità, né della spiritualità), la fede in Cristo Signore che ci libera dalla morte e dà senso oggi alle nostre vite, e dall’altro lato il fatto che nelle assemblee cristiane non si fa un’esperienza di fraternità. Le liturgie sono sovente anonime, sciatte, non lasciano spazio né alla preghiera né al riconoscersi fratelli e sorelle. Giustamente i giovani affermano: “Ma che cosa di vitale mi offre la partecipazione alla messa? Quando esco dalla chiesa cosa porto con me in termini di fiducia, speranza e comunione con gli altri?”.
Purtroppo la chiesa ha dimenticato che uno dei suoi primi nomi (esistenziale e non istituzionale) era adelphótes, fraternità: è così che l’apostolo Pietro chiama la chiesa, quasi a ricordare che se non è fraternità è non-chiesa, è scena religiosa, è rito umano venerabile, ma non è comunione con gli altri e con Dio. Nell’attuale crisi, il rettore de Notre-Dame di Parigi ha denunciato la crescita di una tendenza identitaria tra i giovani cattolici francesi, ma questo esito appare difficilmente possibile in Italia, dove invece ci sarà solo il progressivo abbandono della chiesa e il deserto della fede.
L’idea della necessità della partecipazione al culto comunitario regge soltanto se tale partecipazione è sotto il segno della fraternità. E non si abbia nostalgia della cosiddetta “pietà popolare”, che aggrega per celebrare feste all’insegna del folclore, non in vista della comunione tra i credenti e con Dio!