di Giulio Busi
Chi è, veramente, Gesù? Sappiamo cosa è diventato dopo la sua morte, in duemila anni di fede cristiana. Ma come lo considerano i contemporanei? Cosa pensano quando lo ascoltano parlare e mentre lo vedono agire? È lui stesso a domandarlo ai suoi, in maniera insistente: «Chi dicono gli uomini che io sia?» (Mc 8,27).
Gesù proviene da un piccolo borgo rurale della Galilea. Non c’è dubbio che conosca bene la Torah, anche se tutto lascia pensare che sia un autodidatta. Si esprime con semplicità e si rivolge alla gente del popolo. La sua forza non è l’erudizione. Non è per studiare che ha abbandonato la casa, il lavoro, la famiglia. Se ne è andato, e ha scelto la vita del maestro itinerante, qualcuno dice del vagabondo, per rispondere a una chiamata. Cosa lo spinge lungo le rive del lago di Tiberiade, nella valle del Giordano, per le strade di Gerusalemme?
In principio è l’acqua. Gesù si avvicina al fiume, entra nella corrente, attende che avvolga il suo corpo. Poi si scuote, risale. Ed è allora che la vede. Una colomba lieve, leggera. Scende, dall’alto, da una distanza infinita, dal punto più lontano. Il cielo si è già aperto una volta, durante l’esilio di Babilonia. Lungo il canale Chebar, il profeta Ezechiele ha visto discendere un carro misterioso, in un fulgore di corpi, di lampi, di suoni (Ez 1,1). Ora Gesù guarda quella creatura, mansueta ma non meno enigmatica. Non importa che forma abbia scelto lo spirito, quello che conta è che venga, si posi, si libri fino a sfiorarlo. «Sei tu il mio Figlio, l’amato, in te ho posto la mia benevolenza» (Mc 1,11). Hanno udito anche gli altri? E se non hanno visto la colomba, cosa hanno potuto comprendere? Lui, sì, ha capito. Si è inciso le parole sul cuore. Non è in esilio come Ezechiele, divenuto profeta per risollevare il proprio popolo dalla pena dell’abbandono e della prigionia. Lo spirito è lì per avvicinarlo, ne è sicuro. Ma avvicinarlo a cosa? Nella vita di ogni mistico, e in questo non pensiamo che Gesù faccia eccezione, esiste una porta che separa «prima» e «dopo». C’è insomma un’esperienza biografica iniziale, che segna la presa di coscienza dei propri poteri spirituali. Un simile cambiamento può concretizzarsi in una visione, una percezione uditiva, un trauma o un’emozione debordante. Il vaso dell’anima si riempie, tracima, spande la propria energia per tutto il fisico, pervade la mente fino a trasformarla. L’apparizione dello spirito in forma di colomba e il risuonare della voce celeste sono a un tempo familiari e stranianti. Familiari perché ricordano le esperienze dei profeti biblici, che Gesù e i suoi contemporanei conoscevano intimamente. Ma sono anche stranianti. Quando il cielo si è aperto per lui, Ezechiele è stato sopraffatto da una scena arcana, stracolma di dettagli, un congegno cosmico su cui, nei millenni successivi, si è concentrato l’esoterismo ebraico. I quattro esseri viventi, che all’aspetto sembrano avere figura umana, ciascuno con quattro facce e quattro ali, descritti da Ezechiele, sono molto diversi dalla colomba solitaria che si libra su Gesù. Complessità da una parte, semplicità disarmante dall’altra.
Gesù «vede» la colomba, e «sente», grazie a lei, la forza divina, così lieve eppure tenace. È una presenza nascosta, interiore, quasi impalpabile, che lo lambisce.
Affinché la colomba potesse arrivare a lui, si sono aperti i cieli. Secondo la concezione antica, la volta celeste separa il nostro mondo visibile da quello, invisibile, di Dio. Solo un prodigio può socchiudere, in casi eccezionali, la cortina celeste, spessa e opaca. Chi ha il privilegio di vedere al di là, si affaccia su di una dimensione al di fuori e al di sopra del tempo. Così è successo al profeta Ezechiele e così accade ora a Gesù. L’esperienza visiva e uditiva del Giordano segna una svolta decisiva.
D’ora in poi, Gesù è dentro e fuori dal tempo. È nel corso mondano degli eventi, della sofferenza, della gioia, della morte. Ma è anche fuori di questo tempo, immerso nell’eternità, in un «oltre» cosmico. Lui, che ha visto, passerà la vita, e accetterà la fine, nella consapevolezza di un tempo al di là del tempo. Come trasmetterla, una simile consapevolezza, come farla toccare, e vedere, a chi non ha potuto vedere né toccare?
Nel magistero di Gesù, il tempo ha una funzione fondamentale. Nelle sue parole e nei suoi atti, il tempo si muove, si trasforma. C’è un presente continuo, a cui egli fa costantemente riferimento, a cui richiama i discepoli. È il presente dello spirito, che viene, anzi, che è già venuto, come già è discesa la colomba sul Giordano. E c’è un tempo dell’incompletezza e della morte, dell’attesa e della delusione, che dev’essere superato, sconfitto. Portare tutti oltre il velo del visibile, farli passare attraverso il varco celeste, ecco la sua missione, l’annuncio che ha ricevuto quando si è immerso nel fiume dello spirito. Ci sono due forze che si scontrano qui. C’è la fede nel Dio che si è fatto uomo, e che lo vuole immacolato, onnisciente, da sempre e per sempre. E poi ci sono i Vangeli, che ci parlano di esperienze felici e di momenti d’ira, di certezze e di dubbi. Ogni mistico vive in prima persona il vortice dello spirito. Come fulmini che illuminano per un attimo e poi scompaiono, tornano a sciami, si oscurano, tacciono, così la coscienza del divino è intermittente, incostante, benefica e stravolgente.
Cercate nei Vangeli un protagonista sereno, impassibile? Troverete un uomo che trema, si adira, è felice con gli amici e furioso con gli avversari. Ma lo troverete dopo il Giordano. Dopo il cielo che si apre per lui e fa discendere, nel tempo, la colomba che viene da oltre il tempo.