Il Blog di Enzo Bianchi

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​Fondatore della comunità di Bose

La vecchiaia apre spiragli di vita nuova nell’orizzonte che si è fatto basso

21/10/2023 00:00

ENZO BIANCHI

Quotidiani 2023,

La vecchiaia apre spiragli di vita nuova nell’orizzonte che si è fatto basso

La Stampa

Gabriella Caramore condivide le sue riflessionisull’età “grande”, propria e altrui

E’ l’unica stagione che può pensare se stessa, dando significato a tutto il vissuto

La Stampa - Tuttolibri  - 21 ottobre 2023

 

di Enzo Bianchi

“La vecchiaia si offre all'uomo come la possibilità straordinaria di vivere non per dovere, ma per grazia” ha scritto Karl Barth, a dire che la vecchiaia non è un’inevitabile appendice di giorni ma vita a pieno titolo. Per quanto ogni possibile discorso sulla vecchiaia sia in realtà un discorso che deve diversificarsi in ogni anziano prestando attenzione alle particolari situazioni di salute fisica e mentale in cui ciascuno si viene a trovare, è pur vero che la vecchiaia è vita viva, è una fase particolare di un cammino esistenziale, non una mera anticamera della morte. Dunque essa è anzitutto un dono che può essere vissuto con gratitudine e nella gratuità: si è più sensibili agli altri, alla dimensione relazionale, ai gesti di attenzione e di amicizia; inoltre è la grande occasione per operare la sintesi di una vita. Arrivare a dire “grazie” per il passato e “sì” al futuro significa compiere un'operazione spirituale veramente essenziale soprattutto in vista dell'incontro con la morte: l'integrazione della propria vita, la pacificazione con il proprio passato.

È per questo e per molto altro ancora che per Gabriella Caramore la vecchiaia è l’ultima opportunità, è il tempo per rischiare, per osare paesaggi inesplorati, per sentirsi vivi e per desiderare tutto ciò che è ancora desiderabile e che non si era mai desiderato. In L’età grande, Riflessioni sulla vecchiaia, edito da Garzanti, Caramore consegna ai lettori uno scrigno di sapienza umana, di intelligenza viva e vivace, di interrogativi acuminati che non necessariamente mendicano risposte ad ogni costo, risposte che quando si trovano hanno il sapore del transitorio, dell’effimero. 

Gabriella Caramore è saggista, giornalista, apprezzato conferenziere, conosciuta in particolare al grande pubblico come autrice e conduttrice della trasmissione radiofonica di cultura religiosa di Rai3 Uomini e profeti. Ma in quest’ultimo saggio fa ciò che nei suoi libri precedenti – dedicati a tematiche diverse come l’infanzia, la pazienza, la parola Dio – non ha mai fatto così esplicitamente, complice probabilmente il soggetto: invita il lettore ad accedere alla vecchiaia dal suo punto di vista, da come lei la vive, la sente, la pensa, l’assapora. La sua consapevolezza è il cammino tracciato per il lettore. 

Tutto ha inizio una ventina d’anni fa quando il suo corpo, ma non lei, lo aveva registrato: “Stavo entrando in un’altra età della vita”. Ecco farsi strada l’interesse grande verso questo tempo ultimo nel quale si stava inoltrando, “un interesse che cresce non solo in relazione alla piccola dimensione privata della mia esistenza. Ma anche in relazione alle vite degli altri, al loro inoltrarsi verso il grande silenzio – strano, assoluto – di chi muore. E chi resta. Ammutolito”. 

La vecchiaia conduce ai piedi del muro del tempo e lì tutte le fibre del nostro essere si ribellano, si stupiscono, chiedono, vogliono sapere. La morte è una palese ingiustizia di fronte alla quale sorgono le domande ultime del senso: Perché vivere, se tutto finisce? Tutto accade in quest’unica vita, vissuta una volta soltanto? “Sono domande che rimarranno senza risposta o sono le stesse domande a essere mal formulate?” si chiede Caramore. E allora ecco la scrittura, il mettere per iscritto come forma del pensare, per parlare con sé stessi e per instaurare un dialogo lieve e discreto con l’altro. Se a chi oltrepassa la soglia della vecchiaia non sono molto utili dotte dissertazioni di carattere medico, sociologico o teologico consacrati alla finitezza umana e alla morte, “aiuta forse, perché apre piccoli spiragli nell’orizzonte che si è fatto basso, trovare quel breve pensiero condiviso, riconoscere una piccola esperienza comune, che possano favorire la costruzione di una nuova mappa per orientarsi in quel terreno sconosciuto in cui ciascuno sente di cominciare una vita nuova”. Ecco descritta la mens, l’anima di questo libro.

Due sono le cifre riassuntive del pensiero di Gabriella Caramore sulla vecchiaia. La prima è la novità, esattamente la vecchiaia come “vita nuova”. “Incipit vita nova”, confessa essere la sensazione precisa che vive. Certamente non “novità” sinonimo di felicità e bellezza (c’è in realtà anche tanto dolore, angoscia, sofferenza), ma “novità” intesa come trasformazione, quasi trasfigurazione: “Credo che si possa dire che nell’età senile per la prima volta si prende davvero coscienza che il proprio stare al mondo va verso una drastica metamorfosi”.   

La seconda cifra è la risignificazione di tutta la vita vissuta, e per questo l’autrice ama chiamarla “l’età grande”. Perché grande? Perché deve reggere un carico di prove che non ha eguali nelle altre età della vita, ma soprattutto grande perché “è quella più capace di avere consapevolezza di sé”. Se le altre stagioni svaniscono come un sogno trasmigrando una nell’altra, spesso senza che possiamo rendercene conto, “la vecchiaia è invece la stagione che davvero – qualora sia consentita lucidità – può pensare sé stessa, significando tutta la vita”. Ecco, la vecchiaia come l’unica stagione che può pensare sé stessa. “Ciò che la giovinezza troverà al di fuori, l’uomo nel suo meriggio deve trovarlo nell’interiorità”, ha sentenziato Carl Gustav Jung.

Quello che Gabriella Caramore ci consegna è quasi un diario della vecchiaia. Di certo è un libro intimo, di un’intimità non impudica e morbosa, ma delicata e radiosa.