La Repubblica - 22 Gennaio 2024
di Enzo Bianchi
Ancora una volta Edgar Morin ha denunciato che il male più grande e diffuso, che come una pandemia ammorba la nostra società, è l’indifferenza: questo restare insensibili rispetto a ciò che succede e alle persone che ne sono vittime, questo passare oltre che Gesù ha stigmatizzato. Lo ha fatto in particolare nella parabola del samaritano che vede l’altro, è toccato dalla sua condizione, e dunque si fa vicino e si prende cura della vittima delle violenze, a differenza del sacerdote e del levita che passano oltre.
Sì, noi siamo diventati indifferenti al conflitto tra Russia e Ucraina, alla terribile guerra che Israele continua a combattere contro quel resto di palestinesi chiusi nel territorio di Gaza, siamo ormai abituati a leggere notizie di naufragi di poveri migranti nel nostro Mediterraneo e a ricevere informazioni di tanti eventi mortiferi per i popoli del globo. L’indifferenza è un atteggiamento che sta alla radice dell’amoralità, è la linfa che la nutre, è un veleno che penetra nel cuore degli umani fino a renderli insensibili alla sofferenza degli altri, ma dobbiamo anche dire che è vigliaccheria, e quindi complicità con chi fa il male.
Il 27 di questo mese faremo memoria della shoah, della catastrofe voluta, progettata e realizzata dal nazismo e dal fascismo e sarebbe l’occasione per assumere e confessare l’indifferenza dei nostri popoli, a partire da quello italiano che ha per anni permesso questa persecuzione e questo genocidio senza che si levassero parole di denuncia, o senza che si risvegliasse una responsabilità capace di ribellione. Perché quando si condanna ciò che ha permesso la shoah si pensa solo a un’ideologia precisa, alla follia di un sentimento di elezione e non si pensa soprattutto all’indifferenza che l’ha resa possibile?
Ma anche a livello di relazioni personali oggi è l’indifferenza a determinare il clima sociale: dell’altro non ci sentiamo responsabili, l’altro può essere ignorato, non ci riguarda! Assegniamo importanza all’individuo, agli interessi soggettivi, e obbediamo a un’antropologia individualista che ci induce a guardare soltanto a noi stessi. Eppure abbiamo avuto dei maestri che ci hanno svelato il fondamento dell’etica: la relazionalità. È la relazione che impone la responsabilità, la cura dell’altro e impedisce ogni forma di indifferenza. Proprio per questo anche nelle relazioni personali non basta sentire, sapere, ma occorre entrare nelle situazioni di sofferenza fino ad abbracciare, toccare le vittime, volto contro volto, occhio contro occhio, mano nella mano. Solo quando si arriva alla compassione, a soffrire con l’altro, si può anche assumere la responsabilità dell’altro e ribellarsi, protestare, denunciare il male e l’ingiustizia. E questa assunzione di responsabilità, questo prendersi cura, non può riguardare solo i “nostri”, i vicini, ma anche quelli con i quali non entreremo mai in contatto, il “terzo”, come lo chiama Paul Ricoeur. In questo modo l’etica diventa antidoto all’indifferenza, che è sempre negazione delle relazioni sociali e complice di ogni violenza non contrastata.
Un giorno si dirà: come è potuto accadere che all’inizio del terzo millennio siamo in guerra in Europa, in Medio Oriente, e ci sia in atto un’ecatombe di migranti nel “mare nostrum”? E si risponderà: per indifferenza!