La Repubblica - 20 Maggio 2024
di Enzo Bianchi
Questi non sono tempi buoni, segnati da una convivenza che si nutra di fiducia reciproca, di speranza, dove la vita sociale sia contrassegnata dalla ricerca della legalità, della giustizia, della democrazia. Siamo testimoni di un involgarimento dei rapporti, un imbarbarimento dei modi, una rozzezza anche di chi detiene funzioni nelle istituzioni e della mediocrità che dilaga come una pandemia tra la gente. Non è un clima di “leggerezza”, ma, almeno per chi ama la buona e bella convivenza, è un clima di insostenibile pesantezza, un clima che compromette e deteriora la qualità della vita personale e sociale e che, secondo l’espressione di Robert Musil, è “prassi della stupidità”.
A questo appiattimento acritico e a questa sonnolenza della responsabilità sociale sembra non sia possibile opporre uno sforzo educativo, una protesta. Si parla tanto di resistenza, ma in realtà non si è capaci di una vera prassi di resistenza che necessita non solo di indignazione, ma di una vera e propria insurrezione delle coscienze. Giorno dopo giorno questo involgarimento dilaga purtroppo “tra la gente” e “nel popolo”, a tal punto da impedire che quest’ultimo sia il soggetto della responsabilità. Ma solo la responsabilità può consentire il cammino verso una democrazia che è sempre non solo da rinnovarsi ma da far crescere. Così anche “il popolo” può essere usato e degradato a massa di manovra, e la cosiddetta “volontà popolare” può preferire delegare tutto a un capo, a istituzioni autoritarie, nell’illusione di accedere in questo modo a quell’ordine sociale che garantirebbe la prosperità.
L’autentica qualità della vita sociale richiede invece il senso della responsabilità personale, un suo esercizio soggettivo che se è tale implica sempre anche una vigilanza affinché siano affermate la giustizia, la legalità, l’uguaglianza.
Ma da che cosa nascono gli impedimenti alla responsabilità personale in una società nella quale la democrazia si fa debole e il senso della communitas viene meno? Innanzitutto dalla venerazione della tradizione e dal tentativo di ripristinarla oggi come attualità. È il ricorso martellante ai cosiddetti “valori”: Dio, patria, famiglia... Evocarli come un orizzonte non è solo stoltezza, è un tentativo di far risorgere autoritarismi e quel tipo di ordine sociale che contraddistingue ogni fascismo. Dio non ha bisogno di essere invocato come reggitore del nostro vivere nella polis: questo riguarda noi umani e Dio resta silenzioso per lasciarci liberi nelle nostre scelte. Noi cristiani non sentiamo la patria come una terra solo nostra, perché ogni terra per noi è patria e la nostra patria dovrebbe essere terra aperta a tutti senza muri, senza che si faccia del mare che la circonda un cimitero. Quanto alla famiglia, oggi sappiamo leggere anche le violenze e i soprusi di cui un tempo si nutriva e per questo ne accogliamo oggi la diversità, che certo non corrisponde più al modello patriarcale del passato. Dietro questo culto e questa nostalgia della tradizione (nel senso poco nobile di “quel che si faceva in passato”!) c’è la grande paura della differenza, di chi non appare conforme al modello dominante: una paura che ha la pretesa di legittimare l’avversione e l’ostilità verso gli immigrati che dovrebbero essere ricacciati nelle loro terre di fame e di guerra. Verso gli islamici soprattutto, che si radunano insieme per pregare e vorrebbero avere una moschea. Verso le persone con altro orientamento sessuale rispetto al loro modello maschilista. Ciò che è altro, diverso, in nome di questa paura va escluso come va esclusa ogni possibilità di arrivare a un’Europa plurale, che sarebbe più capace di assicurare democrazia.
Ecco perché è necessaria una nuova resistenza capace di risvegliare il popolo affinché non sogni un suo unico interprete al potere ma un’architettura sempre capace di accrescere la democrazia.