di Paolo Ricca*
Quale la fede di Gesù in Dio e quella in Gesù? non è adesione a una religione ma è seguirlo. Fin dall’inizio il cristianesimo è nato plurale. Le diverse chiese devono oggi concentrarsi sull’essenziale dell’esperienza di fede. L’autore, Paolo Ricca, teologo e pastore valdese, indica questi contenuti.
Rispondo alle tre domande che Esodo mi ha posto.
1. Cos'è la fede in Cristo?
1. La fede in Cristo è anzitutto fede in Dio. Stando alle più antiche e quindi, presumibilmente, le più attendibili testimonianze sulla figura storica di Gesù di Nazareth, osserviamo che questo rabbino del tutto irregolare e provocatoriamente trasgressivo, nella sua predicazione e nella sua azione ha sempre messo al centro Dio, e non la sua persona. Gesù credeva in Dio, non in sé stesso. Stando ai tre evangeli sinottici (Giovanni è un altro discorso), Gesù non ha chiesto ai suoi discepoli di credere in lui, ma di credere in Dio, da lui rivelato come Padre. Gesù quindi, prima di ogni altra cosa, è un uomo che crede in Dio. Il suo pensiero, come il suo discorso, è rigorosamente teocentrico: al centro di tutto c’è Dio.
Quale Dio? Il Dio degli ebrei, cioè il Dio conosciuto e confessato dal popolo d’Israele, non quindi un nuovo Dio, diverso da quello (per gli ebrei) tradizionale, la cui parola risuona attualissima nelle pagine delle Scritture ebraiche, che Gesù conosce bene e cita volentieri. Più volte rivolge ai suoi ascoltatori questa domanda: “Non avete voi letto nella Scrittura...?”. Certo, quello predicato da Gesù è, sì, il Dio tradizionale d’Israele, ma presentato con un volto (se così si può dire) molto diverso dall’idea che il popolo s’era fatta di lui, tanto che l’insegnamento di Gesù su Dio parve fin dall’inizio “una nuova dottrina” (Marco 1,27), benché Gesù parlasse sempre del Dio della fede ebraica: il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe, il Dio del patto con Mosè suggellato dal dono dei Dieci Comandamenti, il Dio dell’esodo e della terra promessa, dei Salmi, dei Profeti e della prossima venuta del Messia, il Dio confessato da Israele come “unico Signore” (Deuteronomio 6,4).
I testi evangelici parlano chiaro: al centro di tutta l’attività di Gesù come “maestro venuto da Dio” (Giovanni 3,2) c’è il regno di Dio vicino: “Il tempo è compiuto, il regno di Dio è vicino” (Marco 1,15). Gesù ha interpretato e vissuto la sua storia personale e vocazionale come un'illustrazione dal vivo di che cosa succede in questo mondo, nella trama ordinaria della vita umana individuale e collettiva, quando Dio è vicino. Succedono cose talmente nuove rispetto a quelle abituali, che le autorità religiose d’Israele, custodi dell’ortodossia ebraica del tempo, sentendosi minacciate da queste novità, si sono allarmate e hanno deciso di neutralizzare Gesù, condannandolo a morte per “bestemmia” (Marco 14,64).
Il tratto altamente paradossale di questa tragedia è che tutto - sia l’attività di Gesù, sia la sua condanna - sono avvenute “in nome di Dio”, e non di due divinità diverse in competizione tra loro, ma nel nome dello stesso e unico Dio della fede ebraica. Nel suo nome, Gesù ne ha svelato il volto dimenticato, facendolo però conoscere non ai savi e agli intelligenti, ai teologi e ai capi religiosi, ma ai piccoli fanciulli; affermando, sempre in nome di quel Dio, che molti ultimi diventeranno primi e molti primi ultimi; che Dio vuole misericordia e non sacrifici e che quindi tutto il sistema dei sacrifici, intorno a cui ruota l’intera attività del Tempio, va smantellato; che Dio è, sì, grande e glorioso, ma anche nascosto, e che di lui si parla meglio indirettamente, in parabole, cioè ricorrendo a paragoni; che nel suo nome si può anche trasgredire il sacro comandamento del riposo sabbatico perché Dio è più grande della sua stessa Legge; che nel suo nome si possono perdonare i peccati anche in terra, e non solo in cielo; anche agli uomini è data questa facoltà divina. Per tutti questi motivi (e altri ancora), in nome di quello stesso e unico Dio, le autorità religiose d’Israele lo hanno condannato a morte.
È questa, allora, la grande domanda che Gesù ha posto alla sua generazione e pone alla nostra: qual è il vero volto di quel Dio d’Israele, in nome del quale è accaduto sia che Gesù è vissuto, dicendo e facendo quello che sappiamo dagli evangeli, sia che è stato condannato a morte, secondo l’accusa, per “bestemmia”: in nome dello steso Dio? Che tragedia! I rappresentanti ufficiali di Dio mettono a morte, nel nome di Dio, il Figlio di Dio! Dio contro Dio! Si tratta, come s’è già detto, dello stesso Dio confessato e adorato da entrambi, ma in base a due diverse, anzi opposte, relazioni ed esperienze di quell’unico Dio, e quindi di due modi opposti di viverlo e testimoniarlo. È un paradosso così inimmaginabile che la nostra mente ci si perde.
Ecco dunque: la fede in Cristo, come fede in Dio, è quella che non teme di affrontare questo temibile paradosso e, se ne viene a capo, di prendere posizione.
2. Ma c’è di più. Gesù ha talmente posto Dio al centro della sua vita che ha finito per immedesimarsi in lui, così da non riuscire più a distinguere bene ciò che, nella sua vita, era suo e ciò che era di Dio; ha talmente ritratto al vivo il volto invisibile di Dio che ha finito per impersonarlo, tanto da diventare egli stesso incerto sulla sua identità, non però della sua vocazione. Ma può darsi che sia avvenuta in lui una transizione da una identità a un’altra. La doppia domanda che egli rivolge ai discepoli: “Chi dice la gente che io sia?” e “Voi, chi dite che io sia?” (Marco 8,27-30) può essere intesa in molti modi; uno di questi è che Gesù stesso si ponesse questa domanda e stesse ancora cercando una risposta. Il fatto poi che egli abbia imposto il silenzio dopo la risposta di Pietro: “Tu sei il Cristo!” (vv. 20-30) può anch’esso essere variamente interpretato: può darsi che Gesù cercasse ancora ulteriori conferme, soprattutto interiori, della sua identità messianica.
D’altra parte ci sono, nei racconti evangelici, diversi indizi che rivelano un Gesù che non è solo “più che Salomone” e “più che Giona” (Luca 11,31-32), cioè più di uomini di Dio già apparsi nella storia del popolo eletto, ma è una presenza inedita, mai vista prima, un novum assoluto. Ricordiamo alcuni di questi indizi: l’autorità con cui Gesù ha chiamato i discepoli che non hanno potuto o saputo sollevare alcuna obiezione, come quando ci si trova davanti al divino che non ammette discussioni; è la stessa autorità manifestata nella cacciata dei demoni che spadroneggiavano sugli “indemoniati”, ma non possono resistere a Gesù, dotato evidentemente di poteri divini.
Altro indizio: l’autorità con cui Gesù, ripetutamente, corregge o reinterpreta, nel Sermone sul Monte, “la tradizione degli antichi”, opponendole il suo regale: “Ma io vi dico” (Matteo 5,22.28.32.34.39.44). Altro indizio: l’autorità con la quale Gesù, fin dall’inizio della sua attività, ha perdonato i peccati (Marco 2,9-11), rivendicando per sé una prerogativa che, in Israele, era sempre stata esclusivamente divina. Altri indizi potrebbero essere evocati: le guarigioni e le risurrezioni; la libertà che Gesù si è presa più volte di includere nella comunità ebraica di fede uomini e donne che, per vari motivi, ne erano state escluse, e ha così ridisegnato i confini del “popolo di Dio”, ampliandoli; la qualità unica, assolutamente incomparabile, del suo insegnamento, che spesso suscitava l’impressione di provenire direttamente da Dio.
Il fatto è che, a un certo punto, tanto i discepoli (almeno alcuni), quanto la folla hanno avuto l’impressione di trovarsi di fronte a qualcosa di più e di diverso da un “uomo di Dio”, o da un'apparizione profetica o messianica.
Pur non osando quasi pensarlo, non hanno potuto evitare di chiedersi se quell’uomo, così ordinario e al tempo stesso così speciale, non potesse avere, oltre che autorità e poteri divini, anche qualità divine. C’è voluto del tempo, ma alla fine, dopo riflessioni prolungate e accese discussioni, s’è capito che nella persona di Gesù non s’è manifestata un'umanità divinizzata, ma una divinità umanizzata.
Il processo dell'umanizzazione di Dio è stato perfettamente descritto dall’antichissimo inno cristiano riportato dall’apostolo Paolo in Filippesi 2,5-11.
Leggendo quell’inno si capisce agevolmente come mai la fede in Dio e la fede in Gesù si siano amalgamate una nell’altra, fino al punto da diventare interscambiabili: credere in Dio equivaleva a credere in Gesù e, inversamente, credere in Gesù equivaleva a credere in Dio. La fede in Gesù conduce a questa scoperta, che Dio non è solo divino, ma anche umano, e che non è mai tanto divino come quando, in Gesù, diventa umano.
3. Ma che cosa significa, concretamente, credere in Gesù? Gesù stesso l’ha detto più volte e molto chiaramente: “Se uno vuol venire dietro a me, rinunzi a sé stesso, prenda la sua croce e mi segua” (Marco 8,34). Quindi, credere in Gesù significa tre cose. La prima è “rinunciare a sé stesso”. Che cosa vuol dire? Non che il discepolo debba rinunciare a essere sé stesso, dimenticarsi o, peggio, alienarsi; ma significa rinunciare a essere il signore di sé stesso, a prendere lui le decisioni importanti, a decidere lui come impostare la propria vita. Credere in Gesù significa fare come ha fatto lui: far posto alla signoria di Dio sulla nostra vita personale.
Il secondo significato della fede in Gesù e quindi dell’andare dietro a lui, è “prendere la propria croce”. Questa croce non è quella di Gesù, unica e soltanto sua, né è la possibile “croce” della vita (malattie, prove di varia natura, errori con le loro conseguenze, ecc.). La croce di cui Gesù parla è la croce del cristiano, cioè il peso e la fatica di cercare di essere cristiani in un mondo ostile che, oggi più che mai, almeno in Europa, non vuole sentir parlare né di Dio né di Cristo. L’Occidente però, per quanto miscredente, è, in generale, democratico e liberale, e perciò pratica la libertà religiosa. In questo senso, in Occidente, essere cristiani non significa portare la croce. Ma in molti paesi religiosi la libertà religiosa non esiste, e in particolare non esiste per i cristiani, che sono discriminati e perseguitati, e spesso anche uccisi, e le loro chiese incendiate. I cristiani di quei paesi sanno che cosa voglia dire “prendere la propria croce”. In Occidente i cristiani devono non lasciare arrugginire la libertà che si gode, utilizzandola per testimoniare Gesù e l’Evangelo, nelle varie forme in cui questo può avvenire, senza “vergognarsi” - come dice Gesù stesso (Marco 8,38) - di lui e delle sue parole.
Il terzo significato e contenuto distintivo della fede cristiana è “seguire Gesù”. Questa è la cosa più difficile perché Gesù non è fisicamente con noi. Lo è - questo sì - con il suo Spirito, la sua Parola e il suo esempio. “Seguire Gesù”, allora, significa molto semplicemente mettere in pratica, personalmente e come comunità, le sue direttive di vita così come le troviamo principalmente nel Sermone sul Monte (Matteo 5-7), ma anche in molti altri passi degli evangeli. Credere in Gesù, quindi, è condividere tutto di Gesù: la sua vita, il suo destino, e la sua visione del mondo, dell’uomo e di Dio.
È chiaro, allora, che la fede in Gesù non è “adesione a una religione”, con le sue dottrine, regole, riti, gerarchie, ecc., ma se la fede in Gesù non è altro che seguirlo; c’è da chiedersi chi lo stia seguendo, c’è da chiedersi, in altre parole, se il cristianesimo come sequela di Cristo esista da qualche parte oggi nel mondo o se, addirittura, sia mai esistito.
Nella migliore delle ipotesi diremo che la fede è rara in questo mondo. E ci torneranno alla mente certe parole di Lutero il quale, rivolgendosi a Erasmo, scriveva: “La Chiesa di Dio, mio caro Erasmo, non è qualcosa di così comune come le parole ‘Chiesa di Dio’, né i santi di Dio si incontrano tanto facilmente come le parole ‘santi di Dio’. Sono come perle e nobili gemme che lo Spirito non getta dinanzi ai porci (Matteo 7,6), ma - come afferma la Scrittura (Matteo 11,25) - le conserva nascoste, affinché l’empio non veda la gloria di Dio [...]. La Chiesa è nascosta, i santi restano ignoti” (1) (Il testo latino è: Abscondita est Ecclesia, latent sancti).
2. La pluralità delle Chiese
Il cristianesimo è nato plurale. Non è mai esistito un solo tipo di cristianesimo. Già nell’epoca apostolica, parzialmente “fotografata” dal Nuovo Testamento, immediatamente a ridosso della vicenda di Gesù, c’erano almeno tre tipi di cristianesimo diversi tra loro: quello di Gerusalemme, imperniato sui Dodici e con a capo Giacomo, fratello di Gesù - un cristianesimo, potremmo forse dire, di tipo dinastico; quello delle comunità fondate da Paolo, di tipo carismatico (Corinto!); quello costituito dalle comunità di Giovanni (un evangelo e tre lettere), in cui la figura centrale è il “fratello”, ed è detto chiaramente che “non avete bisogno che alcuno v’insegni” perché “l’unzione sua (cioè il battesimo dello Spirito Santo) v’insegna ogni cosa” (1Giovanni 2,27), quindi non ci sono ministri, essendo lo Spirito Santo, il Maestro di tutti. A questi tre tipi di cristianesimo corrispondono tre diversi modelli di Chiesa.
Questi diversi modelli di Chiesa sono presto scomparsi per far posto al modello, poi affermatosi nel secondo secolo (Ignazio di Antiochia!), incentrato sulla figura del vescovo inteso come immagine terrena del Padre celeste, quindi in posizione eminente rispetto agli altri ministeri (spunta la gerarchia!) e perno istituzionale intorno al quale si costituisce la comunità cristiana (ubi episcopus, ibi ecclesia - dove è il vescovo, lì è la chiesa). Il vescovo diventa il ministero centrale e fondante, tanto da far coincidere la “successione apostolica” con la “successione episcopale”.
Se si tiene a mente la pluralità originaria dei tipi di cristianesimo, è facile capire che la pluralità delle Chiese e delle confessioni cristiane sviluppatasi nel corso dei secoli è un fenomeno perfettamente normale, non è affatto un’anomalia e non ha in sé nulla di scandaloso e tanto meno di peccaminoso. Nel cristianesimo la diversità è di casa ed è costitutiva della sua unità, che è, appunto, un'unità di diversi, uniti dalla fede nello stesso Signore Gesù.
È invece è scandaloso che vi sia rivalità, e spesso anche concorrenza, tra le diverse Chiese, e che questa o quella Chiesa pretenda di essere “la vera Chiesa” e quindi l’unica vera Chiesa, o comunque “più Chiesa” di tutte le altre. Ancora più scandaloso è che una Chiesa non riconosca le altre come Chiese di Cristo, anche se, nella sostanza e nell’essenziale, professano la stessa fede. La divisione tra le Chiese ha certo tante ragioni, storiche e teologiche, ma entrano anche in gioco questioni di potere al quale non si vuole rinunciare pretendendo che si tratti di poteri di origine divina.
Da oltre un secolo esiste - com’è noto - un Movimento Ecumenico, nato in seno al protestantesimo e oggi accettato e praticato con convinzione variabile da gran parte della cristianità. Il suo obiettivo è costruire e manifestare l’unità dell’unica Chiesa. In questi cento anni si sono fatti molti progressi, i rapporti tra le Chiese sono molto migliorati, ma il traguardo dell’unità cristiana è ancora lontano. Il Movimento Ecumenico ha grandi meriti: combatte ogni forma di settarismo cristiano e i fondamentalismi di tutti i tipi; contrasta la presunzione di molte Chiese di essere migliori delle altre; aiuta le Chiese a uscire dai loro rispettivi monologhi nei quali si sono formate e ai quali sono abituate da secoli; è una grande scuola di dialogo, di rispetto e di accoglienza del cristiano diverso; è una palestra bene attrezzata anche per il dialogo interreligioso.
Ma c’è di più. Oltre a quelli elencati, c’è un altro grande pregio: il Movimento Ecumenico obbliga le Chiese a distinguere, nel loro ricco (forse troppo) bagaglio dottrinale e devozionale, ciò che è davvero essenziale, in quanto riguarda la sostanza della fede cristiana e che, per questo, è comune a tutte le Chiese, o quasi; da ciò che invece è secondario, in quanto non riguarda la sostanza della fede ma, diciamo così, la sua periferia, e come tale non è fatto proprio da altre Chiese; appartiene cioè a una Chiesa e tradizione particolare, e non al resto dei cristiani; su queste dottrine o forme di pietà non è necessario che tutti siano d’accordo; queste differenze non impediscono l’unità della fede che riguarda unicamente il “cuore” del messaggio cristiano.
Il Movimento Ecumenico, quindi, invita le Chiese a concentrarsi sull’“essenziale cristiano” e a liberarsi del fardello di dottrine, norme morali e pratiche religiose che non sono veramente collegate al fondamento del messaggio cristiano e appesantiscono inutilmente la vita della fede. Il cristianesimo del nostro tempo può e dev’essere alquanto “alleggerito” rispetto a quello ereditato dal passato, non però nel senso di essere annacquato, ma, al contrario, di concentrarsi sull’“essenziale cristiano” comune a tutti coloro che credono in Gesù e confessano il suo nome.
Tutto ciò significa che oggi non è più concepibile essere cristiani se non si è nell’intimo e nel vissuto risolutamente ecumenici.
3. L’“essenziale cristiano”
Si possono identificare i contenuti essenziali dell’esperienza di fede in Cristo comuni a tutte le forme di incarnazioni storiche. Questi “contenuti essenziali” possono essere, ad esempio, quelli del Credo niceno costantinopolitano, fissati dai concili di Nicea (325) e Costantinopoli (381), però a una condizione: quel Credo infatti presenta una grande lacuna: ignora totalmente la vita e l’insegnamento di Gesù, passando direttamente dalla sua nascita (“nacque da Maria vergine”) alla sua passione e morte (“patì sotto Ponzio Pilato, fu crocifisso”). Ora, la vita di Gesù fa assolutamente parte dell’“essenziale cristiano”, come già detto in risposta alla prima domanda.
Ma l’“essenziale cristiano” può essere espresso in termini anche più stringati di quanto avvenga nel Credo niceno costantinopolitano. Ad esempio potrebbe essere individuato nell’inno di Filippesi 2,5-11, oppure nella semplice affermazione “Gesù è il Signore” (1Corinzi 12,3). Infatti, l’“essenziale cristiano” è Gesù di Nazareth, così come lo conosciamo tramite la Sacra Scrittura e, in particolare, tramite il Nuovo Testamento. Essere cristiani - lo abbiamo detto - è seguire Gesù, Figlio di Dio e Figlio dell’uomo. Tutto il resto che troviamo nelle Chiese (ed è davvero tanto!), non fa parte dell’“essenziale cristiano”; appartiene a quello che gli antichi teologi chiamavano, con una parola greca, adiàfora, cioè “cose indifferenti”, nel senso di “cose che non fanno la differenza”, “cose trascurabili”, proprio perché non essenziali.
Note
1) Martin Lutero, Il servo arbitrio. Risposta a Erasmo, con testo latino a fronte, a cura di Fiorella De Michelis Pintacuda. Traduzione di Marco Sbrozi, Claudiana, Torino 20172 , pp. 223 e 225.
* In Esodo n.2 Aprile-Giugno 2024