di Eleonora Camilli*
L'ultima strage dei bambini, che allunga la contabilità tragica delle morti in mare dei migranti, si è consumata ieri nel silenzio davanti all'isola greca di Samos. Nel tratto di costa che la separa dalla Turchia, il mar Egeo ha restituito i corpi di sei bambini e due donne. Di loro non sappiamo quasi nulla, solo che viaggiavano su un gommone semi sgonfio. In tutto circa 50 persone, 36 delle quali sono riuscite a mettersi in salvo raggiungendo l'isola a nuoto. Una volta arrivati hanno acceso un fuoco per scaldarsi davanti alla piccola chiesa di Agios Antonios.
Non c'erano soccorsi, non c'erano navi di ong. Quando la guardia costiera greca è arrivata sul posto, allertata dagli S.o.s., ha potuto solo constatare il numero dei morti, otto, e dei dispersi, almeno tre.
Non conosciamo la nazionalità dei naufraghi, le informazioni sono ancora frammentate. Quello che sappiamo però è che negli ultimi mesi i viaggi della disperazione dalle cose turche a quelle greche sono aumentati. Secondo un monitoraggio compiuto dall'Aegean Boat report da agosto a oggi sono soprattutto gli afghani a tentare la via del mare per paura di essere rimandati indietro nel regime dei talebani. Ma stanno aumentando anche le famiglie che scappano dai conflitti in Medio Oriente. E insieme ai viaggi, aumentano i morti e i naufragi fantasma in quel tratto di mare, diventato sempre più pericoloso.
Ma per una strana assuefazione all'orrore di tragedie del mare parliamo sempre meno.
Qualche anno fa quando il corpo del piccolo Aylan Kurdi fu ritrovato privo di vita sulla spiaggia di Bodrum abbiamo pensato, almeno per un po', che le cose potessero cambiare. Che la politica potesse dar seguito all'onda emotiva suscitata dall'immagine del corpo senza vita di quel bambino con la maglia rossa affrontando il tema dell'immigrazione con soluzioni in grado di contrastare realmente i viaggi della morte.
Oggi, invece, nove anni dopo, nulla è cambiato in un'Europa che si fa sempre più fortezza per tenere fuori gli ultimi del mondo. Quei corpi che galleggiano tra le onde non ci indignano neanche più, non muovono l'opinione pubblica, non interessano la politica. Qualcuno dirà (lo hanno fatto) che è colpa dei genitori che li hanno messi sul quel gommone. Qualcuno dirà (lo hanno fatto) che per evitare queste tragedie bisogna bloccarli al di là del Mediterraneo, facendo accordi coi peggiori autocrati e dittatori, in Libia come in Turchia o in Tunisia. Qualcuno dirà (lo hanno fatto) che bisogna dissuaderli evocando lo spauracchio di deportazioni, nei fatti irrealizzabili, in Albania o Ruanda.
Nessuno si interroga, invece, su come realizzare quelle vie legali e sicure, a oggi pressoché inesistenti, ma evocate nei summit dei capi di stato europei solo per fare da contraltare alle peggiori pratiche di chiusura delle frontiere. Intanto noi continuiamo a contare i morti. Ne abbiamo già contati 28 mila negli ultimi dieci anni. E oggi davanti ai corpi di quei bambini torniamo a chiederci con amarezza e disillusione: quanti ancora?
*in “La Stampa” del 26 novembre 2024