Il Blog di Enzo Bianchi

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​Fondatore della comunità di Bose

Non c’è vita senza gli altri

02/06/2025 00:00

ENZO BIANCHI

Quotidiani 2025,

Non c’è vita senza gli altri

La Stampa

L’incontro favorisce il passaggio del singolo da individuo a persona

Solo nella profondità del cuore si intrecciano storie e destini

La Stampa - 02 Giugno 2025

 

di Enzo Bianchi

Se apprendere l’arte della vita è una fatica personalissima a caro prezzo, così lo è anche apprendere l’arte di vivere insieme: non io senza gli altri, non io contro gli altri, ma io insieme agli altri fino a vivere per gli altri. E tale cammino non va pensato in termini di impoverimento: gli altri mi tarpano le ali, mi impediscono di sviluppare la mia personalità, dunque sono costretto a trovare un compromesso. No, è ora di comprendere che l’incontro, il vivere insieme, in uno scambio di sguardi, gesti, parole e anche silenzi, può aiutare a far fiorire la personalità del singolo: può aiutarlo a passare dall’individuo alla persona. Non si dimentichi che, secondo un’ardita etimologia, “persona” potrebbe derivare dal verbo latino per-sonare: io sono in quanto risuono all’appello dell’altro…

 

La mia cultura cristiana di provenienza mi spinge quasi naturalmente a collegare il tema del convivere a una celebre espressione di Paolo di Tarso. Nella sua Seconda lettera ai cristiani di Corinto l’Apostolo definisce così il fine della vita cristiana: “siete nel nostro cuore per morire insieme e vivere insieme” (2Cor 7,3). Sembra un assurdo logico e invece può esprimere mirabilmente il fine del con-vivere, anche a livello umano: solo chi è disposto a dare la vita per chi gli è accanto, al limite fino a morire, può giungere davvero a con-vivere, a vivere insieme con coscienza di causa. È così che si può imparare, nelle profondità del cuore, cioè dell’intera persona, a intrecciare vite, storie e destini.

 

Se si vuole comprendere in profondità che cos’è e come si origina una vera convivenza, occorre essere consapevoli che in primo luogo occorre dare la propria presenza agli altri, fino a dare loro la propria vita. Detto altrimenti: se una comunità non vuole incorrere in derive patologiche – e ahimè oggi quanto siamo esposti! – deve porre come suo principio fondamentale un movimento in cui ciascuno si dispone a donare all’altro la propria presenza. Ci sono due affermazioni del Nuovo Testamento illuminanti in proposito, ben oltre la semplice prassi cristiana, ma in riferimento a un vero cammino di umanizzazione: “Non abbiate alcun debito verso nessuno, se non quello dell’amore reciproco” (Rm 13,8); “Non c’è amore più grande che dare la propria vita per quelli che si amano” (Gv 15,13).

 

Per entrare nella communitas occorre sentire la propria presenza tra gli altri come un debito e un dono nello stesso tempo. Io sono nella comunità per l’altro, soprattutto la mia presenza, l’essere là concretamente è per l’altro, per gli altri. La domanda posta come essenziale sull’architrave della porta della comunità è sempre quella che troviamo nelle prime pagine del “grande codice” della Bibbia, là dove si dice che l’umanità ha avuto inizio attraverso legami e relazioni, all’interno dei quali vi è anche la possibilità dell’omicidio del fratello. Dopo che Caino ha ucciso Abele, si sente chiedere da Dio: “Dov’è tuo fratello?” (Gen 4,9). Questa domanda pone in questione ciascuno di noi sulla sua capacità di essere custode, responsabile dell’altro. Ovvero, ogni essere umano deve sempre sapere dove si trova l’altro, deve sapere dove egli si colloca rispetto all’altro, se in un rapporto di vicinanza oppure di estraneità. Chiedere: “Dov’è tuo fratello, tua sorella?”, equivale a chiedere: “Tu hai il volto rivolto verso di lui/lei, per sapere dove sta? Tu guardi l’altro/a?”.

 

Ecco uno dei punti cruciali per capire da dove può nascere un’autentica convivenza umana: essa nasce da questa responsabilità dell’altro. L’altro è altro e tale deve rimanere, l’altro è unico, tra io e tu c’è un’irrimediabile distanza; nel contempo, però, io e l’altro, io e tu siamo chiamati alla relazione, al dialogo, all’accoglienza reciproca, e questo richiede una grande responsabilità dell’uno verso l’altro: di fronte all’altro devo deporre la sovranità del mio io per poterlo incontrare e con lui poter dire “noi”. L’altro con la sua alterità crea in me un timore, la relazione con lui è sempre un rischio e la sua presenza si impone accanto a me. Ma io posso incontrarlo o rifiutarlo, posso avvicinarlo o escluderlo: se lo avvicino gli riconosco la vita, se lo escludo è come se lo dichiarassi morto.

 

L’altro che mi sta di fronte a questa comunione radicale, originaria con me: siamo umani, siamo mortali, siamo piccola cosa, siamo provvisori, ma proprio per questo abbiamo bisogno gli uni degli altri, abbiamo bisogno di senso, quel senso minacciato dalla morte. E solo la relazione, la comunione, la fraternità, l’amore possono lottare contro la morte e dare senso a ciascuno di noi.