Pubblicato su: Jesus, La Bisaccia del mendicante
Febbraio 2020
di Enzo Bianchi
Viviamo in un tempo contrassegnato dalla “crisi”, nella quale io leggo soprattutto una situazione di “aporia”. Aporia come incertezza, come non comprendere e non sapere, come non saper dire né decidere, fare delle scelte… E questo proprio perché manca l’operazione faticosa e paziente del discernimento, della lettura dei segni dei tempi e delle urgenze emergenti oggi nel nostro mondo globalizzato, certo, ma un mondo che va innanzitutto letto e compreso come mondo occidentale ed europeo, il nostro mondo.
E cosa osserviamo in quest’ora? Un’incapacità dei cattolici di stare nella polis, un’afonia dovuta a un’astenia della loro fede, ma anche a un allontanamento, ormai consumatosi, dall’impegno politico cristianamente ispirato. Come ha scritto Severino Dianich, “l’attuale insignificanza dei cattolici in politica è il sintomo di un avvenuto scollamento della vita di fede del credente dalla percezione delle sue responsabilità politiche”. Va detto che i laici cattolici sono stati delegittimati e di fatto sostituiti da soggetti ecclesiastici che negli ultimi anni del secolo scorso e nei primi anni del nostro hanno avocato solo a sé il discernimento sulla situazione sociale, culturale e politica italiana, fino a intervenire direttamente in materie la cui competenza sarebbe appartenuta di diritto ai laici stessi. Così si è negata ai laici cattolici la possibilità di essere cristiani maturi, adulti, cristiani appartenenti a un popolo “regale”, e si è spenta la loro presenza, si è zittita la loro voce, non permettendo loro di esprimere la capacità di testimonianza nella polis.
Oggi credo sia urgente imparare nuovamente l’arte del dialogo, sia nelle nostre chiese e tra di loro, sia nella società. Siamo davvero chiamati a reinventare con intelligenza e creatività una cultura del dialogo, per poter vivere davvero insieme e non solo gli uni accanto agli altri. Vorrei dunque fornire alcune tracce elementari per intraprendere questo itinerario che ci sta davanti e ci attende.
La prima tappa mi pare consista nella sospensione del proprio giudizio per considerare l’altro con simpatia. Tutto incomincia da qui. L’altro non si rivela sempre “bello”, non genera per forza di cose o l’attrazione o la curiosità. Nella loro alterità, gli altri davvero sono “differenti”, sovente capaci di contraddirci. Avere un atteggiamento di simpatia significa, in un primo tempo, accettare di non comprendere l’altro, cercando nel contempo di condividerne i sentimenti, nella convinzione che la verità dell’altro ha la stessa legittimità della mia. Questo non significa l’inesistenza della verità o l’equivalenza di tutte le verità. Ciascuno può manifestare la propria verità con umiltà e dovrebbe essere disposto a ricevere da altri la verità che sempre ci precede e ci supera. Anche quando siamo convinti che la nostra verità dia senso alla nostra vita.
La simpatia implica l’empatia: ci spingerà incontro all’altro non uno slancio del cuore ma la capacità di metterci al suo posto, di capirlo dal di dentro, la quale si fonda sulla nostra comune condizione umana. L’empatia permette di percepire che l’esistenza per natura non è mai isolata, che “nessun uomo è un’isola”: esiste solo nella comunicazione e nella consapevolezza dell’esistenza di altri. L’egocentrismo, l’indifferenza, il cinismo, il rancore sono vinti da questo sentimento: si fa così posto all’altro passando dalla paura all’accoglienza, dunque all’apertura all’incontro.
Ma simpatia ed empatia sono solo le condizioni di possibilità di un dialogo fecondo di trasformazione e arricchimento reciproci: infatti dal dialogo mai si esce come vi si era entrati, e la sfida del dialogo implica la disponibilità a intraprendere un tale cammino. Dialogando emergono visioni inedite dell’altro, si avvicina la fine dei pregiudizi: c’è la scoperta di ciò che si ha in comune ma anche di ciò che manca a ciascuno. Lo spazio intermedio tra i due volti è la terra di nessuno che attende di essere coltivata e resa feconda da parole di accoglienza e riconoscimento. Quella terra di mezzo è lo spazio del dialogo. E dialogando, due volti si trovano l’uno di fronte all’altro, in una prossimità capace di aprire alla vita. Avviene così la contaminazione e lo spostamento dei confini: l’altro, che collocavo in una dimensione remota, si rivela molto più vicino e simile a me di quanto immaginassi. La frontiera non è annullata, ma da luogo di conflitti e malintesi diviene luogo di pacificazione e di incontro.
Certo, se non attendiamo nulla dall’altro, il dialogo muore prima ancora di nascere. Ma se siamo disponibili ad accogliere l’altro come “ospite interiore”, riconoscendone le tracce presenti in noi, allora scocca la scintilla del dialogo autentico: si dà tempo all’altro, si scambiano parole che divengono doni reciproci. Il dialogo diviene così ciò che la parola stessa dià-lógos dice: un intrecciarsi di linguaggi, di significati, di culture. Le domande dell’altro diventano le mie, i suoi dubbi scuotono le mie certezze, le sue convinzioni interpellano le mie. Allora scopriremo che nel dialogo arriviamo a esprimere pensieri mai pensati prima, con l’affascinante percezione di sentirli a un tempo inauditi eppure familiari a noi stessi, facendo l’esperienza di essere da tempo abitati da realtà che eravamo convinti di ignorare.
Nel dialogo l’altro si fa rivelazione di un dono che viene da altrove e va poi altrove. Ci rende possibile la scoperta inedita della nostra propria esistenza. Con parole e gesti fa affiorare l’interiorità che è in noi e ci fa il grande dono di rivelare in modo nuovo noi a noi stessi.