16 maggio 2018
di Enzo Bianchi
“La storia dell’umanità inizia con il pane”, diceva Pitagora, perché il pane è prodotto della natura e della cultura. Il pane è una realtà precisa, effettiva, ma anche un simbolo, un sistema di segni concreti che permette di stabilire una sapienza pratica. Il pane è alimento che ci nutre e ci trasmette vita, è alimento solido che si impone ai nostri sensi. Pensiamo al profumo del pane appena sfornato che un tempo al mattino presto si sentiva nelle vie dei paesi, passando accanto al fornaio: il profumo precede il pane stesso, raggiunge il nostro olfatto e fin dal mattino trasmette un sentimento di vita. Ma anche la vista è coinvolta: le infinite forme del pane, dovute alla fantasia e alla tradizione locali, fanno sì che il pane diventi una presenza, si imponga e chieda rispetto.
Nelle generazioni passate, che conoscevano la fame di pane e sovente non osavano sperare di mangiare se non pane, vi era addirittura una sorta di venerazione nei confronti di questo straordinario alimento che al tatto si spezza con un frantumarsi di briciole, segno della sua brevità e, nel contempo, invito a discernerlo anche con l’udito. Ma la massima epifania del pane ai nostri sensi si ha quando esso viene gustato, masticato, mangiato e così diventa noi stessi, perché noi assimiliamo ciò che mangiano. Il pane accompagna gli altri cibi – non a caso detti companatico – dall’inizio alla fine del pasto, è solitamente gradito a tutti, alimento ricchissimo dal punto di vista dietetico.
Se questa è la sostanza del pane, non meno ricca è la sua simbologia. Il pane è in primo luogo “pane del bisogno”, segno che senza il nutrimento non possiamo vivere. Per questo diciamo che “senza pane si muore”, parliamo di lavoro come “guadagnarsi il pane”, evochiamo il “pane delle lacrime” o speriamo in un “pane di vita”.
Il pane è il cibo quotidiano per eccellenza, è “pane nostro” perché normalmente lo si condivide, almeno in famiglia, in comunità. Non a caso i cristiani ogni giorno invocano “dacci oggi il nostro pane quotidiano”, chiamandolo “nostro” perché assolutamente da condividere, cibo capace di creare e narrare una comunione. Il pane o è “nostro”, condiviso oppure cessa di essere pane e Dio stesso non può essere confessato come “Padre nostro”. Infatti, senza questa condivisione, si perpetuerà una verità antica che le attuali migrazioni confermano tragicamente: quando il pane non va verso i poveri, sono i poveri ad andare verso il pane.
Pubblicato su: La Repubblica