La Stampa
Dalla Siria, dove infuria una guerra spietata, e precisamente da Aleppo, la città dove la morte è una presenza che si impone a partire dall’odore dei morti sotto le macerie provocate dalla pioggia di “bombe intelligenti”, ci giunge questa fotografia: uomini in fuga che stringono bambini neonati, alla ricerca di un riparo in cui queste vite non siano spente da altre armi. Li stringono al petto e il loro volto ci appare pieno di apprensione e di commozione, mentre altri sulla strada sembrano solo protestare per la condizione in cui sono immersi.
Ma questa foto ci intriga, desta in noi domande profonde, non ci commuove soltanto. Guardandola, la prima sensazione che ci invade è la meraviglia: vita e morte si affrontano a duello, eppure la vita fragilissima di questi neonati ci assicura che la vita vince la morte. È così sulla nostra terra da migliaia di anni, nonostante le contraddizioni alla vita si susseguano e sembrino prossime a regnare. No, la vita, anche la vita fragile di un neonato, ha davanti a sé la promessa di una pienezza, e chi custodisce, salva, si cura di questa vita, lo fa certamente per compassione, ma sostenuto dalla speranza che c’è un domani per questi neonati, c’è un futuro per questa terra.
Nell’umanità c’è la capacità di riprendersi, di ricominciare, di combattere contro la morte, una speranza contro ogni speranza. Dice un proverbio, una scheggia della sapienza popolare monferrina: “I poveri sperano sempre, perciò hanno un futuro; i ricchi sono contenti del presente, perciò non hanno un futuro”. E così sappiamo che mentre le nostre società segnate da senescenze, e ormai da senescenze precoci, non vogliono avere figli, non fanno figli, non vogliono puntare sul futuro, ad Aleppo, tra le bombe e sotto le case che crollano, il futuro è invocato, sperato semplicemente come vita umana: i figli ne sono un segno.
Sempre c’è duello tra vita e morte, e da tale combattimento nasce una domanda: dico sì alla vita o lascio che la morte regni?
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