La Stampa
Si apre oggi, solennità di Pentecoste per le chiese ortodosse, un sinodo ferito: quattro delle quattordici chiese autocefale hanno infatti ritenuto che i tempi non fossero maturi e i preparativi insufficienti per un'assise plenaria di tutta l'ortodossia. È il dilemma lacerante che sovente nella sua storia la chiesa – non solo quella ortodossa – si è trovata ad affrontare: ritrovarsi insieme come fratelli per discutere e discernere anche le questioni che ci separano al fine di pervenire all'unità voluta dal Signore per i suoi discepoli, oppure attendere di superare le divergenze e raggiungere quell'unità prima di celebrarla e annunciarla come testimonianza nel mondo contemporaneo? Quello panortodosso di Creta è un concilio che non si celebrava da dodici secoli e che ha visto una paziente, ostinata preparazione di oltre cinquant'anni. Eppure, anche dopo che tutti i preparativi sembravano aver realizzato una solida convergenza su tempi, modalità e argomenti in discussione, il tratto finale di questa maratona panortodossa si è rivelato in salita, capace di rimettere in discussione gli accordi preliminari raggiunti.
Così, invece di essere il luogo in cui, in un clima di ritrovata fraternità e di preghiera, si potessero far decantare le questioni ancora irrisolte, lasciando allo Spirito di illuminare con la luce del vangelo tensioni a volte non esenti da calcoli politici o mondani, ecco che Creta rischia di essere il crogiolo dove le divergenze si coagulano e le assenze finiscono per pesare più delle rispettive opinioni. È questo un rischio e una ferita avvertita con ancor più grande dolore da chi, come me, da decenni lavora assieme alla sua comunità perché le chiese sorelle dell'ortodossia riescano ad esplicitare l'unità e la comunione che le abita e possano così contribuire in modo determinate a quell'essere “una cosa sola” che è la nota caratteristica essenziale di tutti i cristiani.
Non tocca a noi, né a nessuno di esterno al mondo ortodosso, giudicare quale sia l'atteggiamento più fecondo per il progredire della corsa del vangelo nella compagnia degli uomini. Potremmo invece trarne motivo di riflessione e anche di ammirazione perché le tribolazioni che le chiese ortodosse hanno affrontato in queste ultime settimane e affrontano in questi giorni ricordano a tutti, cristiani di ogni confessione, credenti e non credenti, la fatica della sinodalità, del prendere insieme decisioni che riguardano tutti. Sì, c'è una “fatica della carità”, come la definisce san Paolo, una fatica dell'operare il bene nella società, una fatica del giungere concordi a una visione della realtà e a opzioni da assumere che abbiano di mira non gli interessi personali o di una parte ma quelli della collettività, dell'insieme dei credenti o dei cittadini.
La sinodalità così tenacemente propugnata e ricercata anche da papa Francesco non la si ottiene a basso prezzo: richiede pazienza, ascolto dell'altro, disponibilità a compiere con lui due miglia quando ci obbliga a farne uno, e a non fare riserve di noi stessi, capacità di ritmare il proprio passo su quello del più lento, duttilità nel rinunciare agli aspetti non essenziali dei nostri convincimenti, ma anche risolutezza nel tener fede agli impegni presi, rispetto delle decisioni assunte con il concorso di tutti, sollecitudine e santa impazienza in nome di chi dovesse patire lentezze o ignavia, responsabilità verso quanti ci hanno fatto fiducia.
In questo senso non illudiamoci che l'avere un “papa”, qualcuno al di sopra del consesso dei suoi pari, faciliti di per sé il compito pensare, decidere e agire concordi, alleggerisca più di tanto la quotidiana fatica del camminare insieme. Se, secondo un adagio medievale cattolico mutuato dal codice giustinianeo, “ciò che riguarda tutti deve essere deciso da tutti”, l'intervento dirimente di un'autorità superiore può a volte sbloccare situazioni di impasse, imprimere benefiche accelerazioni, ma non è sufficiente a far sì che ciascuno senta come proprio il percorso intrapreso e vi si immetta con fiduciosa convinzione. Del resto la storia della chiesa è ricca di esempi di tentate riforme istituzionali arenatesi per mancanza di condivisione da parte di quanti le avrebbero dovute attuare ai diversi livelli e per carenza di uomini all'altezza del compito.
Il concilio di Creta può quindi rivelarsi, anche in virtù delle ferite che lo caratterizzano, un’occasione preziosa, il punto di ripartenza per un lungo processo conciliare: già nei sinodi dei primi secoli era normale che un unico evento conciliare si svolgesse in più sessioni successive, né è avvenuto diversamente al Vaticano II, per il quale, prima del suo inizio, molti osservatori dentro e fuori la chiesa avevano ipotizzato un'unica e breve sessione di lavori. Al di là delle decisioni che saranno prese e dei documenti che saranno approvati, sarà importante il concilio in quanto tale, e sarà veramente “grande e santo” nella misura in cui diventerà un’occasione di comunione, un’occasione per “guardarsi in faccia e lasciarsi disarmare” – come amava ripetere il patriarca ecumenico Athenagoras che rilanciò con forza l'idea del sinodo panortodosso nei primi anni sessanta del secolo scorso – un evento cioè che si riveli più grande dei suoi stessi protagonisti e apra spazi insospettati di pace e di comunione.
È questa la preghiera che dovrebbe abitare in questi giorni ogni cristiano, ma è anche l'augurio che dovrebbe sorgere spontaneo dal cuore di ogni persona di buona volontà.
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