La Stampa, 4 ottobre 2015
di ENZO BIANCHI
Oggi si apre un sinodo che – per come è stato pensato e voluto da papa Francesco – assomiglia tanto a un concilio: due assemblee-sessioni a distanza di un anno dedicate allo stesso tema della famiglia, ampio coinvolgimento delle chiese locali, aperta discussione a livello di teologi e di pastori, parresia nel dibattito auspicata e favorita dalle modalità di lavoro… Così il sinodo si presenta, nonostante tutte le inevitabili forzature mediatiche, essenzialmente come evento ecclesiale, posto sotto il primato del vangelo e guidato dallo Spirito santo, invocato nella liturgia che apre non solo i lavori assembleari ma, prima ancora, i cuori e le menti dei padri sinodali. È allo Spirito che la chiesa intera è chiamata a rendersi docile ed è per cercare di “ascoltare ciò che lo Spirito dice alla chiesa” che i vescovi sono convenuti attorno al vescovo di Roma, il servitore della comunione, il successore di Pietro, “servo dei servi di Dio”. Ascoltare la voce dello Spirito che risuona anche oggi è allora la ragione principale di questa assise celebrata in una stagione segnata da un mutamento antropologico rapido e complesso, inatteso perfino da quella chiesa che cinquant’anni fa terminava il lungo, faticoso ma fervido e fecondo lavoro del concilio Vaticano II, un lavoro di “aggiornamento” e di riforma di se stessa, della sua vita nel mondo e del suo insegnamento dottrinale e morale.
Certo, l’infelice uscita pubblica di un presbitero che dichiara di vivere rapporti omosessuali e di condividere la propria vita con un compagno può essere una provocazione a un confronto sereno nei lavori sinodali: difficilmente una simile operazione mediatica programmata aiuterà il dibattito, né credo gioverà alle persone che vivono la difficile situazione di credenti con relazioni affettive di tipo omofilo. Al di là degli innegabili pregiudizi di un certo mondo ecclesiastico verso le persone con orientamento omosessuale, c'è infatti irresponsabilità da parte di chi come presbitero è tenuto al celibato e rivendica poi il diritto a vivere un’unione con un’altra persona, di qualunque sesso sia: è una scelta in palese contraddizione con l’impegno assunto liberamente di fronte al Signore e alla comunità cristiana.
Eppure questo sinodo “conciliare” – il greco del resto conosce solo il termine synodos – mantiene intatta la sua caratteristica peculiare legata non tanto al tema in discussione, ma al metodo adottato su insistenza di papa Francesco: libertà di interventi, discussione franca, confronto fraterno, ascolto reciproco. I padri sinodali dovrebbero far confluire al sinodo il loro pensiero di vescovi e pastori ma, proprio per questo, essere anche eco dei lavori e del fermento suscitati nelle chiese locali, nel popolo di Dio, attraverso la parola data ai fedeli laici, a uomini e donne che quotidianamente tessono la tela della sequela di Gesù sulle strade del mondo. In Italia questo lavoro preparatorio è apparso meno convinto e diffuso di quello realizzato in altre aree geografiche e culturali anche non lontane dal nostro paese – si pensi alla Francia, alla Germania, al Belgio… – eppure l’appello accorato del papa mirava proprio a far sì che i vescovi che avrebbero partecipato al sinodo fossero in grado di rendere eloquenti di fronte al vangelo le diverse situazioni vissute concretamente e quotidianamente da persone che della famiglia conoscono le gioie, le promesse, ma anche i fallimenti e le sofferenze.
Il nodo decisivo è infatti questo: narrare l’immutabile buona notizia del messaggio cristiano con parole, gesti, atteggiamenti, cioè con un “linguaggio” in grado di parlare al cuore e alla mente degli uomini e delle donne di oggi, di riscaldare quei cuori e di rischiarare quelle menti. “Tradizione, infatti, è la salvaguardia del fuoco, non l’adorazione delle ceneri”: questo aforisma di Gustav Mahler ci indica quanto sia sterile il ricorso a enunciati astratti, a una dottrina pensata come immutabile nelle sue formulazioni, a un ripiegamento sul “così si è sempre fatto”, dove il “sempre” indica a volte solo qualche generazione di credenti e non raggiunge mai la chiesa indivisa dei primi secoli, né la variopinta diversità delle comunità ecclesiali sorte dal crogiolo del Mediterraneo e diffusesi fino ai confini della terra, né tanto meno il parlare e l’agire di Gesù di Nazaret… Occorre invece guardare alle persone con lo sguardo che aveva Gesù, che si interessava prima della loro sofferenza e poi, chiamando per nome il peccato, annunciava al peccatore il perdono e la misericordia di Dio, di quel “Padre suo” che non vuole la condanna del peccatore ma che questi si converta e viva in pienezza. In questo sguardo conforme allo sguardo del Figlio di Dio sta la capacità della chiesa di essere “esperta in umanità”: essa non è esente dalla storia né dal peccato commesso dai suoi membri ma, proprio perché partecipe della vicenda e della condizione umana, può alla luce del vangelo farsi prossima e illuminare situazioni che paiono segnate solo dal male.
Ci sarà tempo in queste tre settimane di lavori sinodali per entrare nuovamente nel merito delle questioni trattate, oggi mi pare invece decisivo insistere sul metodo: il sinodo non è un parlamento, né un congresso scientifico, né un’assemblea di partito. È invece un evento ecclesiale dove i vescovi, cum Petro et sub Petro, esercitano collegialmente il loro ministero a servizio della comunione ecclesiale, dove esplicitano la cura delle persone loro affidate e si fanno carico della “corsa della Parola”, dell’annuncio del vangelo a ogni creatura. Per ribadire quanto già fissato nel codice di diritto canonico non c’è bisogno di un sinodo: il sinodo serve per diventare insieme – vescovi e popolo di Dio – consapevoli che, come diceva papa Giovanni parlando del concilio, “non è il vangelo che cambia, siamo noi che lo capiamo meglio”. Si tratta quindi non di contraddire la parola del Signore sul matrimonio e sulla radicalità richiesta a ogni suo discepolo, ma di affermare la misericordia e il perdono di Dio che vuole regnare quando la legge è stata infranta, là dove chi ha peccato è consapevole della responsabilità, dell’amore autentico, della reciprocità del dono, delle esigenze della sequela cristiana. Come non auspicare che in certi casi, di cui giudici sono la chiesa e la coscienza delle persone implicate, si trovino modalità per garantire una vita ecclesiale piena, nella quale i sacramenti siano autentico balsamo per le ferite, viatico verso il regno di Dio, pegno di un cielo nuovo e una terra nuova?
Pubblicato su: La Stampa