Avvenire, 27 giugno 2015
di ENZO BIANCHI
“Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli” (Mt 5,3). Aprendo con queste parole il discorso della montagna, Gesù si ricollega intenzionalmente ai “poveri del Signore” della tradizione biblica, gli ‘anawim, i “curvati”, quel “resto di Israele” umile e povero che confidava solo nel Signore Dio (cf. Sof 3,12). Questo abbandono fiducioso in Dio si era progressivamente focalizzato nell’attesa della venuta redentrice del Messia, l’Inviato definitivo di Dio, il Cristo: in tale contesto appare Gesù fin dalla sua nascita, come testimonia il vangelo dell’infanzia secondo Luca (cf. Lc 1-2). E in Maria la speranza dei “poveri in spirito” di tutto Israele trova il suo compimento: l’umile figlia di Sion ne è consapevole quando scioglie il canto del Magnificat, rivolgendosi a Dio che “ha rivolto lo sguardo alla bassezza e all’umiliazione della sua serva” (Lc 1,48).
Per il profeta e rabbi di Nazaret, questi poveri erano i primi destinatari del Vangelo, della buona notizia del regno di Dio che egli annunciava (cf. Mt 11,5-6; Lc 4,18): venuto per narrare a ogni essere umano il volto di Dio (cf. Gv 1,18), Gesù ha vissuto quale “mite e umile di cuore” (Mt 11,29) e ha testimoniato il regno dei cieli vivendo in prima persona un’esistenza colma di senso. Egli, infatti, aveva una ragione per la quale valeva la pena spendere la vita, fino alla morte: la libera scelta di amare tutti gli uomini suoi fratelli, persino i nemici. Non a caso, nel discorso della montagna la prima e l’ultima beatitudine – “Beati i perseguitati per la giustizia” – si richiamano nell’identica motivazione: “perché di essi è – non “sarà” – il regno dei cieli” (Mt 5,3.10). Abbandono in Dio e difesa del debole sono gli spazi autentici in cui “Dio regna” già ora, non in un futuro di là da venire.
Qui occorre però fare una precisazione decisiva, al fine di sgombrare il campo da un diffuso equivoco. La povertà vissuta e annunciata da Gesù – lui che è l’uomo delle beatitudini – non è un mancare di tutto (non si troverebbe mai il fondo!), non è miseria o indigenza, ma è una rinuncia a possedere per sé: ciò che si ha e si è va sempre condiviso con gli altri; ciò che si ha e si è non va considerato come un privilegio, come un titolo di successo o di potere, ma occorre condividerlo, senza trattenerlo per sé… Non lo si ripeterà mai abbastanza: il vero nome della povertà vissuta da Gesù Cristo, e dunque della povertà cristiana, è condivisione.Per questo il discepolo abbandona casa e campi per seguire Gesù, abbandona anche la sicurezza della famiglia per stare con lui (cf. Mc 10,29 e par.); egli condivide con i poveri ciò che possiede, perché sa che il giudizio incombe e che nel giudizio Dio si mostra come vendicatore dei poveri, come colui che rende loro giustizia.
E la croce come esito di una vita vissuta nella giustizia rivela la povertà vera di Gesù: nessuno a difenderlo, nessuno a sostenerlo, come un uomo che non conta nulla per il potere e per la gente, un uomo solo e povero come il Servo sofferente di Isaia, come il giusto povero che nei Salmi può unicamente gridare a Dio, affidandogli tutta la propria vita! Non la tomba offertagli da un ricco notabile (cf. Mt 27,57), non gli inviti ricevuti da uomini ricchi, non i banchetti con i peccatori manifesti hanno ferito la sua povertà o l’hanno contraddetta. Sì, Gesù è stato “il povero del Signore”, dalla nascita fino alla morte: è stato libero come può esserlo solo chi è povero nel cuore; è stato capace di accogliere le umiliazioni, sottomettendosi per amore a tutti coloro che incontrava, senza rispondere alla violenza con la violenza, ma continuando sempre a vivere nell’autentica, profonda povertà.
In questa sua prassi di vita Gesù ha saputo ascoltare il grido del povero concreto, davanti al quale si è invece tentati di distogliere lo sguardo. Così facendo, ha tracciato per noi un cammino preciso: dopo di lui, il povero che manca del necessario per vivere con dignità è “sacramento” di Cristo, perché con lui Gesù ha voluto identificarsi nel discorso sul giudizio finale (cf. Mt 25,31-46), ma è nello stesso tempo “segno” dell’ingiustizia che vige nel mondo, del venir meno degli umani al comandamento dell’amore per il prossimo. Gesù ci ha insegnato una volta per tutte – se vogliamo ascoltarlo… – che il giudizio alla fine della storia in realtà si consuma nella nostra vita ogni giorno, oggi! Allora ci sarà solo l’epifania di ciò che abbiamo fatto o non fatto nella nostra vita quotidiana: conosceremo che aver dato da mangiare a un affamato e da bere a un assetato, accolto uno straniero, vestito un ignudo, avuto cura di malato, visitato un carcerato, è aver fatto ciò che il Signore desidera. Anzi, è averlo fatto a lui: ciò che abbiamo fatto o non fatto a un essere umano come noi, l’abbiamo fatto o non fatto a Cristo! In quel giorno vedremo i volti dei poveri e dei bisognosi nel volto di Cristo che ci chiama al Regno o ci esclude da esso: ma siamo stati noi, qui e ora, nella nostra vita quotidiana, a decidere il nostro destino ultimo, il nostro esito eterno.
Ilario di Poitiers affermava che “gli umili in spirito sono coloro che si ricordano di essere umani” e un autore moderno gli fa eco parlando di un atteggiamento di “radicale desistenza”, ovvero della sconfessione pratica di ogni arrogante sufficienza, di ogni pretesa di dominare e prevalere sull’altro, di ogni egoistico possesso materiale o spirituale. Solo attraverso l’assunzione della semplicità e la disponibilità a rendere ogni giorno povero il nostro cuore, “sulle tracce di Cristo” (cf. 1Pt 2,21), giungeremo alla comunione fraterna: è così che nostro “è il regno di Dio” perché Dio regna nelle nostre vite; è così che si può sperimentare già qui e ora, immersi nel duro mestiere di vivere, la beatitudine dei poveri in spirito, concessa a chi si esercita a fare della propria esistenza un capolavoro di amore.
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