La Repubblica, 19 maggio 2015
di ENZO BIANCHI
Omnia sunt communia: questa affermazione, risalente ai padri della chiesa, è stata la bandiera della rivoluzione di Thomas Müntzer (1489-1525), la “rivoluzione dei contadini”. Dal 1968 riappare periodicamente – così anche poche settimane fa a Milano, in occasione dell’inaugurazione di Expo 2015 – come scritta di protesta. Si può essere sorpresi dalla predicazione ecclesiastica degli ultimi decenni, muta sui temi della giustizia e dell’equità, ma questa affermazione era stata ripresa dal concilio Vaticano II: “Dio ha destinato la terra e tutto quello che essa contiene all’uso di tutti gli uomini e di tutti i popoli, e pertanto i beni creati debbono essere partecipati equamente a tutti, secondo la regola della giustizia, inseparabile dalla carità… L’uomo, usando di questi beni, deve considerare le cose che legittimamente possiede non solo come proprie, ma anche come comuni” (Gaudium et spes 69).
Il cibo, che ci dà la vita e senza il quale moriamo, è la prima realtà che va necessariamente condivisa. Oggi siamo consapevoli dell’ingiustizia regnante, dell’assoluta mancanza di equità nella distribuzione delle risorse del pianeta. Si pensi solo che meno del 20% della popolazione possiede l’86% della ricchezza mondiale. La diseguaglianza planetaria, a partire dall’ingiusta ripartizione del cibo, dovrebbe farci provare vergogna. L’abisso sempre più profondo che separa i poveri dai ricchi dovrebbe inquietarci, perché una tale situazione può solo preparare una rivolta dei poveri, una guerra – dai nuovi connotati, ma sempre guerra – tra i privilegiati da un lato e, dall’altro, i bisognosi che non solo ricevono sempre meno aiuti e sono sempre più abbandonati a se stessi, alla miseria, all’ignoranza, alle regressioni tribali che generano violenza tra gli stessi poveri, ma che vengono anche defraudati delle loro terre e delle ricchezze che vi si trovano. I ricchi oggi diventano più ricchi e i poveri più poveri, cresce il numero delle persone obese nel ricco occidente, mentre gli abitanti dell’emisfero sud, dell’Africa, continuano a morire di fame o di malnutrizione. Purtroppo negli ultimi venticinque anni si sono imposti e regnano “dogmi economici” che favoriscono i ricchi e aumentano l’ingiustizia nella società. L’idolo della crescita economica che si pretende inarrestabile; il consumo, anch’esso pensato sempre in aumento per soddisfare una ricerca di felicità falsata; la concezione della naturalità della diseguaglianza, che sarebbe vantaggiosa per tutti: questi sono diventati dogmi poco contraddetti e invece sempre capaci di rendere idolatre e alienate le masse.
Per la fede ebraica e cristiana, in ogni caso, Dio è la presenza che non solo chiede equità, ma la impone, “ricolmando di beni gli affamati e rimandando i ricchi a mani vuote” (cf. Lc 1,53), mentre attualmente si crede alla mano invisibile del mercato, pensata come l’artefice assoluto del benessere del pianeta: idolatria, avrebbero gridato i profeti e i padri della chiesa! Abbiamo perduto il senso della grande e decisiva nozione cristiana del bene comune e, con esso, ogni urgenza di giustizia e di equità. La terra è di Dio e su di essa noi siamo solo ospiti e pellegrini (cf. Lv 25,23); la terra è stata affidata a tutta l’umanità perché fosse lavorata, custodita e potesse dare le risorse necessarie per la vita di tutti gli abitanti del pianeta, umani e animali. Il cibo, il pane, secondo la metafora che lo rappresenta, è di tutti e per tutti. Diceva il pensiero cristiano: “Il ‘mio’ e il ‘tuo’, queste fredde parole, introdussero nel mondo infinite guerre… Un tempo i poveri non invidiavano i ricchi perché non c’erano poveri, essendo tutte le cose comuni” (Giovanni Crisostomo, Omelia su 1Cor 11,19 2). Ecco da dove sorgono il contrasto, l’inimicizia, la violenza…
Oggi è urgente che gli umani riscoprano la communitas la quale, sola, può aiutare i tentativi di equa redistribuzione delle ricchezze del pianeta; è urgente che ritrovino l’idea di bene comune, per la felicità della convivenza; è urgente che si esercitino alla “con-vivialità”, alla condivisione del cibo per ritrovare i legami sociali, la possibilità di instaurare una fiducia reciproca che si traduce in responsabilità l’uno verso l’altro. Non mi dilungo a declinare l’istanza della condivisione del cibo, ma è facile comprendere che non significa solo l’atto finale dello spezzare il pane insieme, seduti alla stessa tavola, bensì anche il rispetto del lavoro del produttore di alimenti, il riconoscimento del lavoro dei contadini, la sostenibilità sociale ed ecologica, l’instaurazione di un mercato equo e solidale e, all’inizio dei processi, l’affermazione della proprietà comune delle risorse naturali come l’acqua e la destinazione della terra a quanti la lavorano.
Il cibo, dunque, è tale quando è condiviso, altrimenti è veleno per chi se lo accaparra e morte per chi non ce l’ha. Il mondo, purtroppo, sembra diviso tra chi non ha fame perché ha troppo cibo e chi ha fame perché non ne ha. In virtù di questa perversa situazione, molti sono esclusi dalla società in cui vivono e diventano ben più che sfruttati: diventano avanzi, scarti, rifiuti… Il paradosso dell’abbondanza in cui credevamo di vivere, con la crisi economica di questi ultimi anni ha mostrato che la miseria può essere tra di noi e colpire qui, nelle nostre terre, uomini e donne che vivono tra la penuria e la fame, faticando ad avere ciò che è necessario per vivere e dovendo così ricorrere all’aiuto di istituzioni caritative. Ripeto, qui in mezzo a noi! Condividere il cibo dovrebbe essere condizione essenziale per poterlo assumere con sapienza e per renderlo causa di festa, trasformandolo da cibo quotidiano in banchetto. Mai senza l’altro, neppure a tavola! Nel Padre nostro non sta scritto: “Dammi oggi il mio pane quotidiano” – suonerebbe come una bestemmia! – ma “Dacci, da’ a tutti noi il pane di ogni giorno (cf. Mt 6,11; Lc 11,3), e così ti potremo chiamare ‘Padre nostro’ e non ‘Padre mio’”! Permettetemi di ricordarlo: se il pane, bisogno comune, pane per tutti, non è condiviso, allora “le pain se lève”, “il pane insorge, si alza in rivolta”. Questo è il grido delle rivoluzioni per la mancanza di pane e la fame dei poveri: lo era nel medioevo ma lo è ancora ai giorni nostri (come dimenticare la scintilla che ha scatenato la rivolta tunisina un paio d’anni fa?).
Vigiliamo dunque e, soprattutto, decidiamoci a una conversione, a un mutamento dei nostri comportamenti verso il cibo: dobbiamo combattere gli sprechi, sentire come un furto il buttare via il cibo, assumere uno stile di sobrietà, fare le battaglie politiche ed economiche necessarie affinché il cibo sia sempre condiviso. E subito, nel quotidiano, dove ci troviamo, dobbiamo dare da mangiare a chi ha fame, aiutandolo con denaro o invitandolo alla nostra tavola. Sulla condivisione del cibo – dice Gesù – saremo giudicati degni di vivere oppure maledetti, consegnati alla morte: “Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare … ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare” (Mt 25,35.42). Il rapporto tra sapienza umana e cibo non può eludere il problema della fame e dunque chiede, anzi reclama con forza la condivisione.
Pubblicato su: La Repubblica