Il Blog di Enzo Bianchi

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​Fondatore della comunità di Bose

Quei volti non sono una statistica

10/04/2015 01:00

ENZO BIANCHI

Quotidiani 2015,

Quei volti non sono una statistica

La Stampa

La Stampa, 10 aprile 2015
di ENZO BIANCHI

Guardiamoli i volti di questi giovani assassinati in Kenya, lasciamoci interpellare dai loro sguardi. Il villaggio globale e interconnesso ci ha assuefatto a tante cose: a pesare la gravità di una tragedia dal numero dei morti, o dalla distanza dal luogo dell’evento, a cercare immagini sempre più forti della barbarie umana, a identificarci con leggerezza con persone di cui fino a un attimo prima ignoravamo l’esistenza… Poi a volte, ancora grazie alla rete virtuale, ecco l’irruzione del quotidiano, e i numeri diventano volti, persone come quelle che incontriamo ogni giorno: operai egiziani emigrati per lavoro come ne vediamo sui nostri cantieri, bambini che giocano tra le macerie come noi settant’anni fa, giovani universitari che ridono, scherzano, ballano, si scambiamo messaggi, come quelli che fatichiamo a sopportare quando turbano la nostra quiete, ma che siamo pronti ad abbracciare quando fanno parte della nostra vita…

Meditando sul massacro dei cristiani copti in Libia avevo voluto elencare tutti i loro nomi: l’enormità della strage in Kenya rende impossibile fare altrettanto, anche se sul web i giovani – sempre loro – hanno lanciato campagne per gridare che “147 non è solo un numero” e per ridare nome e volto a tanti ragazzi e ragazze come loro. Ma chi erano questi giovani dell’università di Garissa? Studenti come tanti, certo. Ma dietro a loro, come dietro ai migranti le cui speranze affondano nel Mediterraneo o nel deserto libico, ci sono famiglie, amici, compagni di studio, di giochi, di vita... Quando muoiono dei giovani, e ancor più quando vengono uccisi brutalmente, una certa retorica ci fa dire che erano il futuro della società, della chiesa, del loro paese, del mondo... In realtà, se guardiamo bene le immagini di questi volti, capiamo che i giovani non sono il futuro, ma parte essenziale del presente, del nostro presente. E sono, paradossalmente, anche parte del passato, luoghi in cui si deposita la memoria di quanti attorno a loro sono più ricchi di anni e più poveri di speranze.

E poi, non lo si vede dai volti, dai loro occhi e dai loro sorrisi, ma questi universitari di Garissa erano cristiani: alcuni sono stati uccisi mentre pregavano, altri probabilmente mentre si chiedevano il perché di questa brutalità, oppure dove era Dio, anzi dove era l’uomo in questa violenza assassina. La loro identità cristiana non la si coglie dalle fotografie perché da sempre – fin dai primi secoli e dalle prime persecuzioni – i cristiani non si differenziano dai loro fratelli e sorelle in umanità per colore della pelle o tratti somatici, per le città che abitano o i lavori che svolgono, ma per il loro comportamento, per uno stile di vita che cerca di restare fedele all’esempio e alle parole del loro Signore, Gesù di Nazareth. Ancor meno sappiamo, dalle foto e dalle notizie di agenzia, se questi giovani cristiani erano cattolici o protestanti, membri di chiese storiche o di congregazioni di recente fondazione: ma a questo ecumenismo del sangue le cronache recenti ci stanno tragicamente abituando perché chi uccide i cristiani non fa differenza di confessione, non risparmia gli uni per perseguitare gli altri, ma riconosce l’unicità della fede professata dai discepoli di Cristo e contro quella comune identità si scaglia.

L’appello che si alza da questi volti è uno solo: non guardateci come numeri, non accorpateci come un mucchio indistinto, non fate di noi una statistica. Ciascuno di noi è un nome e una storia, una vita e dei sentimenti, delle speranze e delle relazioni. E ciascuno di noi vi rende presenti altri volti e altri nomi, altre storie, più vicine a voi, più simili al vostro quotidiano, volti e storie che magari non volete guardare in faccia. Non considerate mai l’altro come un numero o, peggio, come un soprannumero: l’altro è sempre una persona, una storia, un capolavoro. Sì, nel volto dell’altro, se accettiamo di guardarlo, c’è il nostro volto, perché l’altro siamo noi.

 

Pubblicato su: La Stampa