L'Osservatore Romano, 1 agosto 2014
di ENZO BIANCHI
Perché il perdono è un tema così decisivo nella nostra vita umana e cristiana? Perché la nostra vita conosce il male, questa contraddizione, questa negazione del bene che non possiamo rimuovere né negare. Il perdono ha a che fare con il male, il male che noi facciamo a noi stessi e agli altri, il male che gli altri ci fanno. Il male – nelle sue varie forme del cattivo pensare, del malvagio agire, dell’offensivo parlare – è una realtà nella nostra vita e nelle nostre relazioni. Il male, dice Gesù, è ciò che nasce dal nostro cuore e diventa aggressività, violenza, odio verso gli altri e verso noi stessi (cf. Mc 7,20-23; Mt 15,18-20). Il male è ciò che io faccio nonostante voglia fare il bene, confessa l’Apostolo Paolo (cf. Rm 7,18-19). Non a caso le domande che rivolgiamo a Dio nel Padre nostro, la preghiera insegnataci da Gesù, sono: «Non abbandonarci alla tentazione» e «Liberaci dal male» (Mt 6,13); e queste richieste sono precedute da quella del perdono di Dio, invocato perché ci renda capaci di perdonare i nostri fratelli: «Rimetti a noi i nostri debiti, come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori» (Mt 6,12).
Il male come azione malvagia compiuta da noi esseri umani ci accompagna per tutta la vita. Nel quotidiano il più delle volte non è epifanico, non ha conseguenze vistose; in alcune circostanze invece esplode e ci spaventa, provocando in noi indignazione. In ogni caso, il male è sempre banale… L’uomo si abitua al male, e soprattutto la violenza può nutrire il male, farlo crescere fino alla negazione dell’altro, degli altri. Siamo sinceri con noi stessi: non arriviamo talvolta alla tentazione di voler vedere scomparire chi ci è nemico, di voler vedere escluso dal nostro orizzonte un altro che ci ha fatto del male? Non siamo tentati di ripagare con lo stesso male chi ci ha fatto del male? Non giungiamo perlomeno a sperare il male per chi ci ha fatto soffrire?
Questo è il nostro istinto di conservazione: vogliamo vivere e vivere a ogni costo, anche senza gli altri e magari contro gli altri. Siamo tutti malati di philautía, l’egoistico amore di noi stessi, e quando siamo offesi il nostro istinto è quello di difenderci attaccando, non diversamente dagli animali. Siamo tentati di rispondere al male con il male, alla violenza con la violenza, alimentando così una spirale di odio e di vendetta che ben presto finisce per mostrare la sua qualità mortifera. Noi esseri umani, in verità, sappiamo che per intraprendere il cammino di umanizzazione in vista di una vita piena di senso, di una vita segnata dalla qualità della convivenza, dobbiamo impedire la vittoria del male su di noi e la spirale di violenza che ne consegue: è qui che si colloca il perdono, che è innanzitutto, umanamente, un’interruzione del male, un porre un argine al male, un dire no a una logica di morte.
È significativo in questo senso che il Nome di Dio rivelato a Mosè sia: «Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e compassionevole, lento all’ira e grande nell’amore e nella fedeltà, che conserva la sua grazia per mille generazioni, che perdona la colpa, la trasgressione e il peccato» (Es 34,6-7). E Gesù con tutta la sua vita ha cercato di narrarci questo volto di Dio fino a vivere lui stesso, in prima persona, il perdono fino all’estremo. Perdono donato anche ai suoi carnefici, ai suoi aguzzini, a quanti lo hanno condannato a morte, a quanti lo hanno angariato durante la sua esecuzione: «Padre, perdona loro perché non sanno né quello che dicono né quello che fanno» (cf. Lc 23,34). Proprio per aver ricevuto la testimonianza e l’insegnamento di Gesù, Paolo nella Lettera ai Romani ha potuto rivelarci Dio quale fonte di ogni perdono. Ascoltate questo straordinario annuncio dell’Apostolo:
Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi. A maggior ragione ora, giustificati nel suo sangue, saremo salvati dall’ira per mezzo di lui. Se infatti, quand’eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo, molto più, ora che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita (Rm 5,8-10).
Si pensi a questa scandalosa simultaneità: mentre noi odiamo Dio, Dio ci ama e ci perdona; mentre noi siamo peccatori, Dio ci riconcilia con sé. Questo è il cristianesimo, a tal punto che Hannah Arendt, una filosofa ebrea e non credente, è giunta a scrivere: «A scoprire il ruolo del perdono nell’ambito delle relazioni umane fu Gesù di Nazaret». Questo è lo scandalo della croce di Cristo (cf. 1Cor 1,23), e solo nella folle logica della croce (cf. 1Cor 1,18.23.25) si può comprendere il perdono di Dio verso di noi, e quindi il nostro perdono verso noi stessi e gli altri.
Il male commesso è irreversibile, resta male anche dopo il perdono, ma può essere trasceso. Con il perdono, chi ha subìto il male irreversibile ricrea le condizioni per un nuovo inizio nella relazione con l’altro: questa è l’azione dello Spirito santo il quale – come recita l’orazione Super oblata del sabato della VII settimana di Pasqua – «è la remissione dei peccati» (Quia ipse [Spiritus sanctus] est remissio omnium peccatorum), è il perdono che ricrea vita là dove c’è morte, che rimette in piedi chi è caduto, che fa di un peccatore una nuova creatura.
Sì, il perdono attesta che l’ultima parola non spetta al male commesso, ma alla grazia, all’amore!
Pubblicato su: Osservatore Romano