La Stampa, 25 maggio 2014
di ENZO BIANCHI
Oggi viene scritto un altro capitolo del Tomos agapis, di quel “libro dell’amore” che Paolo VI e Athenagoras iniziarono a redigere cinquant’anni fa. Avevano raccolto i primi germogli del lavoro e della preghiera di pochi coraggiosi pionieri che avevano intuito come solo l’unità dei cristiani avrebbe potuto rendere credibile l’annuncio del vangelo nel mondo contemporaneo.
Il vescovo di Roma e il patriarca di Costantinopoli avevano anche fatto tesoro dell’eredità lasciata da papa Giovanni e dato voce all’anelito che nel concilio stava prendendo forma ed espressione. Oggi a Gerusalemme un altro successore di Pietro e un altro successore di suo fratello Andrea si incontrano non per una semplice celebrazione commemorativa di un anniversario, ma perché – come dice il patriarca Bartholomeos – “la storia non deve essere dimenticata: può diventare maestra nel presente”.
E non dimenticare la storia significa sì non ignorare il millennio di divisione, di contrapposizioni, di accuse o di diffidenze reciproche, ma significa anche riconoscere che oggi l’atteggiamento di fondo nei rapporti tra cattolici e ortodossi è profondamente mutato. Basterebbe riascoltare le parole scambiate tra Paolo VI e Athenagoras nel colloquio privato (registrato solo per un disguido tecnico) - «Nessuna questione di prestigio, di primato, che non sia quello... stabilito da Cristo.
Ma assolutamente nulla che tratti di onori, di privilegi. Vediamo quello che Cristo ci chiede e ciascuno prende la sua posizione; ma senza alcuna umana ambizione di prevalere, d’aver gloria, vantaggi. Ma di servire» - per capire come Bartholomeos possa affermare che “gli ortodossi non percepiscono ora nell’istituzione papale nessun tratto di prepotenza, quella che in passato aveva molto ostacolato i rapporti tra cattolici e ortodossi”.
Certo, non dimenticare la storia vuole dire avere presente anche tutte le valenze politiche e sociali che la visita di un papa in Medioriente comporta: il dramma della Siria, dei suoi abitanti e dei suoi profughi, la situazione sempre più precaria dei cristiani nelle terre dove il cristianesimo ha conosciuto il primo irradiamento, l’irrisolto conflitto israelo-palestinese in una terra che ciascuna comunità considera quella dei propri padri e antenati.
Non a caso ieri è risuonato particolarmente vigoroso l’appello rivolto nel campo profughi di Betania sulle rive del Giordano, dove Giovanni Battista aveva fustigato la violenza dei potenti: un’invocazione di pace per le popolazioni martoriate dalla guerra, un incoraggiamento alla solidarietà, ma anche un pressante invito alla conversione per i “criminali che fabbricano e vendono armi” e per i violenti che fomentano la guerra.
Fa parte della memoria storica anche la consapevolezza della valenza interreligiosa di qualunque gesto compiuto in una città considerata santa dalle tre religioni che si richiamano al monoteismo abramitico. Non a caso per la prima volta nella storia, un papa ha voluto accanto a sé nel suo viaggio un rabbino e un imam cui è legato da antica amicizia: segno di un’apertura cordiale al dialogo con l’ebraismo e con l’islam, ma anche di come in questo dialogo la conoscenza, la frequentazione e la fiducia reciproca che ne deriva costituiscano uno strumento chiave per rendere possibile l’impossibile.
Ma è nell’incontro tra cristiani sul luogo della morte e resurrezione del loro unico Signore che questo pellegrinaggio condiviso nella terra dell’incarnazione trova il suo significato più profondo. Ed è innanzitutto per i cristiani di tutte le confessioni che la memoria storica diviene anche impegno nel presente e promessa di un futuro maggiormente fedele alla volontà di Cristo stesso affinché “tutti siano una cosa sola”.
Le chiese cristiane presenti a Gerusalemme sono così interpellate a riconoscersi per quello che sono in verità: “chiese sorelle” nate proprio dall’unica “chiesa madre” di Gerusalemme. Sono chiamate a mettere da parte le consuete diatribe “familiari” su chi è il più grande – amara discussione iniziata già tra i dodici apostoli attorno a Gesù – su chi è l’erede autentico di un lascito preziosissimo che paradossalmente svanisce proprio se non si accetta di condividerlo con il fratello. L’incontro fraterno e la preghiera comune – questo e non altro dovrebbero sempre fare i cristiani quando si trovano insieme – saranno al contempo una riaffermazione del cammino percorso e un impegno a non indietreggiare di fronte agli ostacoli che ancora si frappongono al ristabilimento della unità e della comunione volute dal Signore Gesù.
Sì, molto cammino è stato fatto in questi cinquant’anni – talora con esitazioni o timori, talaltra con maggiore o minore calore e convinzione, altre volte ancora incespicando in contraddizioni più o meno consapevoli – e molto ne resta ancora da fare, non certo più agevole. Papa Francesco e il patriarca Bartholomeos, così come quanti accanto a loro da anni tessono giorno dopo giorno rapporti di fraterna fiducia, ne sono pienamente consapevoli: “moltissima strada resta da compiere e il percorso pare essere lungo”, ma di fronte alle esigenze del vangelo “riconosciamo di non avere altra alternativa”. L’invito del patriarca Bartholomeos è in piena sintonia con il cuore e l’agire di papa Francesco: entrambi chiedono che tutti i cristiani vogliano “camminare insieme con loro in questo viaggio verso la riconciliazione” e pregano affinché questo si realizzi. Oggi affrontiamo insieme a loro una tappa decisiva di questo pellegrinaggio.
ENZO BIANCHI
Pubblicato su: La Stampa