Avvenire, 9 aprile 2014
ENZO BIANCHI
Definire “storica” la decisione assunta a Istanbul il mese scorso dai patriarchi e arcivescovi delle chiese ortodosse autocefale non è enfasi retorica: dal secondo concilio di Nicea (787 d.C.) sono passati più di dodici secoli senza che le varie chiese d’oriente si ritrovassero in concilio per riflettere e deliberare insieme su come declinare nel mondo contemporaneo l’annuncio e la testimonianza rese all’eterno Vangelo di Gesù Cristo. Non solo, ma è dagli inizi degli anni sessanta del secolo scorso che, su sollecitazione dell’allora patriarca ecumenico Athenagoras I, si sono avviati dei lavori “preparatori” in vista di quel sinodo pan-ortodosso che solo ora ha finalmente una data (l’anno 2016) e un luogo (Costantinopoli – Istanbul) di celebrazione e un cammino di preparazione immediata scandito da tappe definite e ravvicinate.
Negli ultimi cinquant’anni molte cose sono cambiate nella società, anche in quelle nazioni in cui storicamente la fede cristiana era vissuta, celebrata e trasmessa secondo la grande tradizione orientale: il crollo del comunismo e la ritrovata libertà di confessare la propria appartenenza a Cristo e alla chiesa, ma anche il dilatarsi del fenomeno migratorio. E alcuni di questi cambiamenti hanno accentuato anche novità in ambito ecclesiale: il confronto con altre confessioni cristiane, la ricaduta universale del cammino intrapreso dalla chiesa cattolica con il concilio, la fine della cristianità con il conseguente cambio di modalità di rapporto con la società civile, l’incontro quotidiano con credenti di altre religioni, con forme non comunitarie di religiosità, con una secolarizzazione sempre più diffusa...
Le chiese ortodosse, non avendo un centro unitario di autorità come la Chiesa di Roma con il Papa, hanno dovuto faticare per trovare un accordo sinfonico: si è perfino temuto che – visto il sorgere di nuove tensioni o il riacutizzarsi di antiche divergenze – il sinodo dovesse conoscere perenni rinvii se non addirittura di veder cancellata la sua stessa celebrazione. Inoltre le chiese cristiane – e molte di quelle ortodosse in particolare – conoscono una stagione di debolezza, di minoranza all’interno degli stati e delle società in cui vivono: basti pensare alla situazione drammatica dei cristiani in Medio Oriente. Ma, paradossalmente, proprio questa debolezza ha contribuito al “miracolo” dell’annuncio del sinodo del 2016: i cristiani sentono che hanno bisogno di ritrovare unità, di intensificare la comunione senza la quale il futuro della loro presenza in certe aree del globo diventa precaria.
Ho avuto il dono di seguire in modo particolare e attento il faticoso itinerario di questo progetto sinodale, ho conosciuto da vicino l’ansia pastorale e la sollecitudine per le chiese che anima Bartholomeos I: in modo convinto ha faticato perché il sinodo fosse celebrato nonostante tutte le difficoltà, anche inattese, sopravvenute. Ero suo ospite quando fu raggiunto dalla notizia che il governo avrebbe permesso che la prima sessione sinodale si tenesse nella più antica chiesa di Costantinopoli – la chiesa di Santa Irene, la “Santa Pace” l – là dove nel 381 si tenne il I concilio di Costantinopoli, il II ecumenico: il patriarca era radioso, commosso e insieme ringraziammo il Signore.
È allora lecito aspettarsi segnali di speranza sia da questi due anni di preparazione finale, sia dall’assise che si terrà sotto la presidenza del patriarca ecumenico. Innanzitutto un processo di conferma della fede e al contempo di rinnovamento delle modalità in cui testimoniarla in questo mondo secolarizzato in cui i cristiani sono diventati una minoranza. Uno sforzo per certi versi analogo a quello compiuto dalla chiesa cattolica con il Concilio Vaticano II ma che, naturalmente, potrà maggiormente tener conto di fenomeni culturali e sociologici emersi con maggior intensità in questi ultimi cinquant’anni: si pensi, per esempio, alla tematica ecologica sulla quale da tempo il patriarcato ecumenico è impegnato, agli effetti della globalizzazione e della interconnessione di problematiche come l’emigrazione o la giustizia sociale.
Una seconda sfida sarà di trovare vie di comunione: nella ricchissima sinfonia dell’autonomia delle chiese: tutte ugualitarie e ciascuna radunata attorno a un patriarca con il proprio sinodo, le chiese ortodosse hanno bisogno di trovare vie di comunione al di là dei confini nazionali o regionali. Non si tratta di rinunciare a una feconda valorizzazione di elementi e tradizioni “locali”, né di costituire una sorta di “federazione” con tanto di delegati, portavoce o rappresentanti unitari, ma piuttosto di vivere nel concreto la concordia tra locale e universale, tra l’uno e i molti, tra attenzione e rispetto per il particolare e capacità di “pensare in grande” e di respirare a pieni polmoni.
In questo il sinodo potrebbe rivelarsi – come è stato il Vaticano II – un evento benedetto anche per le altre chiese, a cominciare dalla cattolica. Se l’ortodossia, ha sempre affermato la sinodalità, in Occidente abbiamo affermato soprattutto il primato. Un sinodo pan-ortodosso, presieduto dal primus inter pares, potrebbe favorire in ambito cattolico la riflessione sul fatto che il primato patisce a essere esercitato senza sinodalità e, in ambito ortodosso, la consapevolezza che una sinodalità senza un primus che animi la comunione e svolga concretamente il ministero dell’unità rischia la paralisi. Certo, il cammino resta difficile, soggetto a tratti tortuosi e a tentazioni ricorrenti: si pensi che già gli apostoli discutevano su “chi tra di loro fosse il primo”...
Resta tuttavia la convinzione che la fissazione della data del sinodo pan-ortodosso sia un ulteriore segnale della nuova primavera ecclesiale che stiamo vivendo. La mia generazione ha vissuto quella degli inizi degli anni sessanta con il concilio e papa Giovanni, ma ha anche sperimentato che nella storia sovente queste primavere sono interrotte da gelate repentine. Oggi qualcosa di nuovo eppure di antico sta sbocciando: la freschezza del Vangelo. I nostri fratelli e sorelle in umanità guardano di nuovo a Gesù Cristo e alle chiese che lo annunciano e lo testimoniano perché avvertono un bisogno di senso, perché la loro vita anela a essere salvata, perché attendono di fare esperienza di parole e gesti di misericordia. Davvero viviamo un tempo favorevole per la chiesa e per il Vangelo. Del resto, sempre la chiesa vive una stagione favorevole quando accetta di ritornare al suo Signore, quando rinuncia a piegarsi su se stessa, quando non si indurisce nella difesa di privilegi, quando si trova a essere povera, in minoranza, e assume questa debolezza come sequela di Cristo povero e nudo. Forse proprio questa condizione di povertà e di servizio costituisce la grande opportunità di annuncio credibile del Vangelo.
Enzo Bianchi
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