Avvenire, 22 gennaio 2014
di ENZO BIANCHI
“Il monastero, se possibile, deve essere organizzato in modo tale che per tutto quanto è necessario – cioè acqua, mulino, orto e i vari mestieri esercitati in monastero – i monaci non abbiano necessità di andare in giro fuori, poiché non giova assolutamente alle loro anime” (RB 66,6-7).
Questo brano della Regola di Benedetto è all’origine, almeno in occidente, di quella che verrà chiamata l’autarchia monastica, l’autosufficienza nel produrre tutto ciò di cui una comunità ha materialmente bisogno per vivere. Già problematica in una società rurale come quella dell’Italia del VI secolo – nella stessa regola si normano infatti anche le uscite dal monastero, i prezzi a cui vendere i beni, la gestione comunitaria dei prodotti artigianali, il tipo di abiti da acquistare... – un’autarchia simile è oggi per noi impensabile.
Eppure l’attualità del motto “ora et labora” non cessa di interrogare le nostre società. L’invito di san Paolo a “guadagnarsi il pane lavorando con tranquillità” (2Ts 3,12) nel monachesimo è assunto con due connotazioni complementari: il procurarsi il necessario per vivere con le proprie mani e il poter condividere, specie con i più poveri, il frutto del proprio lavoro.
In monastero, quindi, non si dovrebbe lavorare per la competizione – né interna né esterna alla comunità – né per un crescita costante dei guadagni, ma piuttosto per intensificare i rapporti di comunione. Condividere i propri beni, infatti, significa anche impiegare a beneficio di tutti le proprie capacità manuali e intellettuali, i propri carismi, il frutto del proprio ingegno. Un’economia, quella dei monasteri, di solidarietà e di condivisione, non di accumulo e di concorrenza; un’economia del dono e della reciprocità, non dell’esclusione del più debole o della sopraffazione.
Un’economia assolutamente “reale” – fatta di beni materiali prodotti, consumati, donati o venduti – e non una “virtuale”, fondata su movimenti finanziari speculativi. Ma anche un’economia con una dimensione “invisibile”: il tempo speso per l’ascolto dell’altro, il dono “impagabile” di chi agisce in maniera gratuita e disinteressata, la coesione di chi mette a disposizione degli altri ogni giorno non il superfluo ma le proprie energie vitali (cf. Mc 12,44), di chi è pronto a riconoscere le doti del fratello, di chi esercita il proprio cuore e la propria mente a distinguere tra bisogni, desideri, pretese.
Il lavorare insieme per il bene comune conduce allora a interrogarsi costantemente su cosa significhi, appunto, “insieme” (“con un cuore e un’anima sola” direbbero gli Atti degli apostoli) e qual è l’autentico “bene comune”, così differente dall’interesse personale. Grazie a questo lavoro quotidiano, ogni membro della comunità potrà scoprire che la piena realizzazione della propria persona non si ottiene cercando di prevalere sull’altro bensì offrendo il meglio di se stessi per l’edificazione della casa di tutti.
Il monastero potrà allora diventare un luogo-testimonianza in cui si contrasta nei fatti prima che con le parole una cultura che, per usare l’espressione di Oscar Wilde, “conosce il prezzo di ogni cosa e il valore di nessuna”.
Enzo Bianchi
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