XXVI domenica del tempo Ordinario
di ENZO BIANCHI
Mt 21,28-32
In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli: 28 «Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli. Si rivolse al primo e disse: «Figlio, oggi va' a lavorare nella vigna». 29 Ed egli rispose: «Non ne ho voglia». Ma poi si pentì e vi andò. 30 Si rivolse al secondo e disse lo stesso. Ed egli rispose: «Sì, signore». Ma non vi andò. 31 Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?». Risposero: «Il primo». E Gesù disse loro: «In verità io vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio. 32 Giovanni infatti venne a voi sulla via della giustizia, e non gli avete creduto; i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto. Voi, al contrario, avete visto queste cose, ma poi non vi siete nemmeno pentiti così da credergli».
Gesù ha terminato il suo viaggio verso Gerusalemme, la città santa in cui è entrato acclamato quale Messia, figlio di David, dai discepoli che lo accompagnavano e dalle folle; ha cacciato dal tempio quanti impedivano che fosse una casa di preghiera e ha simbolicamente seccato l’albero di fico che non dava frutti (cf. Mt 21,1-22) Queste azioni causano una profonda indignazione da parte delle autorità religiose legittime ma perverse, “sacerdoti e anziani“, che intervengono pubblicamente chiedendo a Gesù con quale autorità compia quei gesti provocatori. Ma Gesù non risponde, anzi pone loro una domanda riguardo alla missione di Giovanni il Battista: missione voluta da Dio o missione che Giovanni aveva inventato per sé?
Questo interrogativo non riceve però una risposta (cf. Mt 21,23-27), e allora Gesù indirizza loro tre parabole: quella dei due figli, quella dei vignaioli assassini e quella degli invitati al banchetto nuziale (cf. Mt 21,28-22,14). Di fatto sono tre parabole con le quali egli cerca di causare un ravvedimento in quei suoi avversari che poco tempo dopo saranno i suoi accusatori e i suoi condannatori. Le parabole sono per Gesù proprio uno strumento per far cambiare pensiero e atteggiamento a coloro ai quali sono rivolte. Ma qui accadrà esattamente l’opposto. Anziché interrogarsi e convertirsi, sacerdoti e anziani si indigneranno ancor di più e, comprendendo che tali racconti sono rivolti proprio a loro, induriranno ancor più il loro cuore, accrescendo la loro opposizione e il loro odio verso Gesù.
Ascoltiamo dunque la prima parabola, in obbedienza all’ordo liturgico che la prevede per questa domenica: “Che ve ne pare?”, introduzione che è un invito a pensare e a fare discernimento, perché alla fine ci sarà un’altra domanda da parte di Gesù, che richiederà una risposta chiara e decisiva. “Un uomo aveva due figli. Avvicinandosi al primo, disse: ‘Figlio, va oggi a lavorare nella vigna’. Ed egli rispose: ‘Non ne ho voglia’. Ma poi, pentitosi, vi andò”. La risposta iniziale è irriverente, all’insegna di una disobbedienza consapevole. Ma questo figlio che osa resistere alla richiesta del padre e gli nega l’obbedienza, in seguito (hýsteron) cambia avviso, muta di opinione (metameletheís) e va a lavorare nella vigna. Così egli mostra di essersi ravveduto: pensando, ha cambiato parere, e la non voglia si è trasformata per lui in obbedienza possibile.
Entra poi in scena il secondo figlio. Il padre si rivolge a lui allo stesso modo che all’altro, e la risposta che ottiene è positiva: “Sì, Signore (Kýrios)!”, ma poi costui non va. Siamo di fronte a un figlio rispettoso del padre, che lo chiama addirittura signore. È rispettoso forse per paura, perché incapace di dire un no a suo padre. Oppure è rispettoso perché nutrito di formalismo: dice sì al padre, come richiesto dalla legge e dalla prassi, ma poi non esegue la volontà. Forse pensa che il padre non si accorgerà che egli non ha messo in pratica ciò che ha detto… Non conosciamo le motivazioni della non esecuzione dell’invito: resta il fatto che la volontà del padre non è compiuta. Questo secondo figlio si accontenta di fare una dichiarazione verbale secondo il desiderio del padre e non percepisce la propria incoerenza: come un cieco non vede, non legge se stesso…
È evidente che ciò che succede in questa parabola succedeva ai tempi di Gesù, tra i credenti giudei, ma succede ancora oggi nelle comunità dei discepoli, nella chiesa. Sempre ci sono stati, ci sono e ci saranno quanti dicono: “Signore! Signore!”, lo invocano e hanno spesso il suo nome sulla loro bocca, ma poi non fanno la volontà del Padre suo che è nei cieli(cf. Mt 7,21). Le parole di Gesù vogliono smascherare questi credenti che confidano nel loro frequentare assemblee dove risuona la parola del Signore, che partecipano a pasti con il Signore mangiando e bevendo alla sua tavola (cf. Mt 7,22-23; Lc 13,25-27), ma in verità senza essere concretamente discepoli alla sequela di Gesù, nel tentativo di conformare la loro vita alla sua. Militanti, certo, senza essere discepoli!
Grazie a questa parabola siamo invitati a discernere nel nostro oggi quelli che di fatto, senza saperlo, sono rappresentati dal primo o dal secondo figlio: uomini religiosi che vantano appartenenza confessionale e parlano, parlano…; dicono sì alla volontà di Dio, ma quotidianamente non la realizzano, perché per loro è più importante apparire che essere e fare. D’altra parte, quelli che sembrano dire costantemente no a Dio perché non si mostrano religiosi, perché non proclamano la loro appartenenza religiosa, poi invece la vivono nell’anonimato, nella quotidianità, realizzano la volontà del Signore senza nominarlo e a volte senza conoscerlo. Perfetti anonimi per noi, ma che semplicemente “praticano la giustizia, amano la misericordia e camminano umilmente con Dio” (cf. Mi 6,8). Ecco allora puntuale, alla fine della parabola, la domanda di Gesù: “Chi dei due figli ha compiuto la volontà del padre?”, cui segue la scontata risposta dei sacerdoti e degli anziani: “Il primo!“.
E allora Gesù li invita a trarre le conseguenze, commentando: “In verità io vi dico: ‘I peccatori manifesti e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio!’”. Parole di Gesù dure come pietre, perché costituiscono il giudizio pronunciato su questi ascoltatori. Ma perché? Non è forse questo paradossale? Eppure avviene così, perché quelli che pubblicamente appaiono peccatori e sono da tutti ritenuti tali, sono preda della vergogna e sentono in loro il desiderio, più o meno ascoltato, di cambiare vita: desiderano uscire fuori dalla loro vita di peccato, che gli altri disprezzano e condannano. Gli uomini religiosi, invece (qui i sacerdoti e gli anziani, interlocutori di Gesù), che appaiono osservanti ma hanno peccati nascosti, siccome tutti li venerano e tutti guardano a loro per il loro status, non vogliono assolutamente cambiare vita. Gli uni sono dunque aperti a un invito a convertirsi, mentre gli altri si sentono a posto e pensano di non avere bisogno di alcuna conversione: da questo nascono la loro ipocrisia, la loro rigidità, il loro giudicare e spiare gli altri, senza mai interrogarsi su di sé; sono sempre pronti ad assolversi, perché agli occhi della gente risultano giusti e addirittura esemplari…
Lo ripeto, perché sia ben chiaro. Chi pecca di nascosto non è mai spronato alla conversione da un rimprovero che gli venga da altri, perché continua a essere venerato e stimato per ciò che della sua persona appare all’esterno: questa è la malattia della maggior parte delle persone, tra le quali primeggiano però proprio quelle religiose e devote, che credono di dover essere d’esempio agli altri… Chi, al contrario, è un peccatore pubblico, si trova costantemente esposto al giudizio e al biasimo altrui, e in tal modo è indotto a un desiderio di cambiamento. Solo animato da tale desiderio, solo nel pentimento che nasce da un cuore spezzato – questo significa etimologicamente “contrito” (cf. Sal 34,19; 51,19; 147,3) –, l’essere umano può divenire sensibile alla presenza di Dio.
E così Gesù annota che, quando è venuto Giovanni il Battista a chiedere la conversione, i peccatori pubblici hanno risposto fattivamente all’invito e si sono convertiti, mentre i sacerdoti e le autorità religiose, pur avendo visto, nulla hanno mutato del loro comportamento per aderire al suo messaggio. Con questa parabola Gesù interroga dunque ciascuno di noi, se vogliamo ascoltarlo. E ciascuno di noi, più è riconosciuto per la sua professione di fede, più deve interrogarsi: dice sì a Dio solo a parole, oppure realizza senza clamore e senza ostentazione, umilmente, la sua volontà? Insomma, “nell’ultimo giorno, il giorno del giudizio” – come recita un’affermazione tradizionalmente attribuita ad Agostino, che dovremmo tenere ben più presente – “molti che si ritenevano dentro saranno trovati fuori, mentre molti che pensavano di essere fuori saranno trovati dentro il regno dei cieli”.
Francis Bacon (1909 - 1992), Dopo Il ritratto di Papa Innocenzo X di Velazquez, 1953, olio su tela, 173.7 × 139.4 cm., Des Moines Art Center, Iowa (Stati Uniti d’America)
A sinistra: pagina di un libro con illustrazioni di Velazquez ritrovata nello studio di Bacon ora conservato a Dublino. Al centro: Diego Velazquez, Ritratto di Innocenzo X, 1650, olio su tela, 141x119 cm, Roma, galleria Dora Panphilij. A destra: Francis Bacon, Dopo Il ritratto di Papa Innocenzo X di Velazquez, 1953, olio su tela, 173×139 cm., Des Moines Art Center.
[Il ritratto] lo guardava, colla sua bella faccia sciupata e il suo sorriso crudele. Nella luce del sole mattutino i suoi capelli chiari brillavano, gli occhi azzurri incontravano i suoi. Fu preso da un senso di infinita pietà, non tanto di se stesso, quanto dell’immagine dipinta di se stesso. Questa si era già alterata e si sarebbe alterata ancora. L’oro sarebbe appassito, mutandosi in grigio; le rose rosse e bianche sarebbero morte. Per ogni peccato commesso da lui una macchia ne avrebbe insozzato e deturpato la bellezza. Il ritratto avrebbe costituito per lui l’emblema visibile della coscienza.
Questo quadro trae ispirazione dal ritratto di Velazquez del 1650 rivelando un viso sconvolto e un urlo di olore. L’uomo di potere seduto sul trono di Velazquez diviene agli occhi di Bacon rinchiuso nella sua gabbia, incapace di vedere l’esterno. Bacon ottiene questo risultato portando all’estremo la struttura dorata del trono come se fossero le sbarre di una gabbia (in giallo).
La composizione accentua le linee come se queste ricordassero un'esplosione, una folata sferzante di vento, un fremito di terrore. Nella parte alta le linee sono verticali (in azzurro) e danno un senso di movimento continuo dall’alto al basso. Nella zona in basso le linee si fanno curve (in rosso) come se da sotto la veste partisse un'esplosione.
L’occhio dell’osservatore è rapito dall’urlo che sembra la scintilla che ha causato la deflagrazione del dolore di quest’uomo.
Bacon porta all’occhio dell’osservatore il dolore e la consapevolezza del male che quest’uomo ha dentro di sé. Quello che nessuno di noi vorrebbe mai che l’altro vedesse: le nostre colpe, la nostra fragilità. Così come accade a Dorian Gray che cerca di nascondere il suo ritratto agli occhi di tutti poiché segna la traccia dei suoi misfatti.
Sotto l’immagine di facciata si nasconde l’umana verità che ci accomuna: gli errori che tutti compiamo. Scrive Bacon:
“Le idee richiedono sempre veli di apparenza, gli atteggiamenti che gli uomini acquisiscono. Gli artisti veramente bravi stracciano questi veli”.
Il vangelo di questa domenica ci ricorda che coloro di cui deploriamo pubblicamente i peccati ci precederanno nell’ingresso del Regno.
Bacon ci chiede il coraggio di guardarci in verità e di cercare innanzitutto quell’urlo in noi stessi, per essere capaci di non additarlo negli altri.
a cura di fratel Elia