XIV domenica del tempo Ordinario
di ENZO BIANCHI
Mt 11,25-30
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli : «Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. 26 Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza. 27 Tutto è stato dato a me dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo.
28 Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. 29 Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. 30 Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero».
Dopo il discorso missionario rivolto da Gesù ai discepoli (cf. Mt 10), nel vangelo secondo Matteo leggiamo una sezione narrativa che ci testimonia l’esistenza intorno a Gesù stesso di un clima di tensione e di contraddizioni alla sua persona (cf. Mt 11-12).
Dalla prigione Giovanni il Battista manda i suoi discepoli a chiedergli: “Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?” (Mt 11,3). Domanda che esprime non una mancanza di fede ma un dubbio al quale Gesù risponde rinnovando la fede di Giovanni, percependo però anche che di fronte alla propria parola e al proprio stile vi è chi si interroga. Nel frattempo Gesù conosce anche il rifiuto da parte di coloro ai quali si sentiva inviato come porta-parola di Dio e si chiede come mai quella generazione che ha rifiutato Giovanni, asceta rigorista, rifiuta anche lui, che invece ha mostrato un volto misericordioso, accogliente e solidale verso i peccatori (cf. Mt 11,16-19). Proprio le città in cui Gesù aveva fatto azioni prodigiose, come Corazin e Betsaida, le “sue città”, da lui evangelizzate, non hanno dato segni di conversione (cf. Mt 11,20-24)…
Il contesto è dunque pesante, è un’ora di prova nel ministero di Gesù, un’ora in cui sono possibili, anzi quasi fisiologici, lo scoramento e il senso di fallimento. Ma Matteo sottolinea che proprio “in quel tempo” (en ekeíno tô kairô), in quell’ora di “crisi”, Gesù fa sgorgare dal suo cuore un inno di lode gioiosa e convinta a Dio: “Riconosco, o Padre, Signore del cielo e della terra, che hai nascosto queste cose ai saggi e agli intellettuali e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché questa è stata cosa gradita davanti a te”. Non un lamento si alza da Gesù verso Dio, ma una confessione che è lode e benedizione. Gesù si rivolge a Dio con una confidenza unica: lo chiama “Padre”, in aramaico “Abba”, perché in questo nome sono racchiusi per Gesù la tenerezza, l’amore e la misericordia. Dio è Creatore e Signore del cielo e della terra, è l’Altissimo, ma il credente lo riconosce in una relazione di intimità paterna, carica di sentimenti d’amore. Per questo Dio lo si adora come Signore, lo si invoca e si parla a lui come a un Padre.
Così Gesù lo invoca e confessa la sua fede in lui: “Padre, proclamo la tua lode, riconosco la tua volontà e il tuo operare: ciò che hai nascosto a quanti erano convinti di meritarlo, lo hai rivelato ai piccoli che non vantavano alcun merito”. Certamente qui il linguaggio di Gesù, che risente dello stile semitico, va decodificato. Sembrerebbe infatti che Dio nasconda arbitrariamente qualcosa, la verità profonda, a saggi e intellettuali, mentre si riservi di comunicarla solo ai piccoli, ai poveri e agli ultimi. Come se ci fosse nelle parole di Gesù una condanna dell’intelligenza e un’esaltazione dell’ignoranza… No! Conosciamo bene i semitismi, espressioni linguistiche secondo le quali ciò che accade ha sempre come soggetto Dio, perché si esprime in modo forte e diretto l’azione di Dio, senza considerare la dinamica nel suo svolgimento. È la stessa dinamica presente nel libro dell’Esodo: “Il Signore indurì il cuore del faraone, il quale non lasciò partire i figli d’Israele” (Es 10,20). Come dobbiamo comprendere tali parole? Dio inviò la sua parola di salvezza al faraone, attraverso i suoi messaggeri, ma egli la rifiutò, sicché il risultato fu l’indurimento del suo cuore. È il faraone, con la sua responsabilità di aver rifiutato la parola di Dio, che indurisce il suo cuore nella piena libertà e responsabilità personale. Allo stesso modo, il nostro brano evangelico non va inteso nel senso che Dio precluda la rivelazione ai saggi e agli intellettuali di questo mondo; attraverso Gesù Dio si rivolge a costoro, ma essi non accolgono la sua parola e così facendo induriscono orecchi e cuore. Ecco come avviene il nascondimento delle cose di Dio.
Non siamo forse anche noi testimoni di queste realtà? Proprio quelli che sono saggi, che mondanamente hanno acquisito saggezza, proprio quelli che sono esercitati intellettualmente e raggiungono un’alta qualità di conoscenza mondana della realtà, non sono poi capaci di aprirsi alla buona notizia del Vangelo e di accoglierla. L’Apostolo Paolo ha visto e sperimentato questo stesso scacco del Vangelo quando ha predicato di fronte ai saggi e agli intellettuali di questo mondo, come testimonia nella Prima lettera ai Corinzi: “La parola della croce è stoltezza per quelli che si perdono, ma per quelli che sono salvati è potenza di Dio … Dov’è il saggio? Dov’è l’intellettuale? Dov’è il sottile ragionatore di questo mondo?” (1Cor 1,18.20). Il risultato della predicazione del Vangelo è folle! Aderiscono a esso i poveri, gli ultimi, le vittime e gli scarti della società, quelli che non contano, mentre rigettano questo dono i saggi, gli intellettuali, i nobili, le élites e quelli che contano, “gli árchontes di questo mondo” (1Cor 2,8).
“Sì, Padre, così hai voluto nella tua bontà”. Colui che guarda all’umiltà dei suoi servi, che scruta e discerne chi è piccolo, che conosce il cuore di chi nella sua povertà spera solo nel Signore, ha voluto che il velo che nasconde molte cose riguardanti il Salvatore e la salvezza fosse alzato (ri-velazione) per i piccoli. Guardando a queste persone, Gesù le aveva dette beate (cf. Mt 5,1-12), sempre le aveva incontrate e accolte, sempre aveva potenziato la loro fiducia e libertà, e questa era la sua esperienza: questi piccoli hanno creduto, minoranza benedetta in mezzo a tanti indifferenti e ad altri ostili a Gesù e al suo Vangelo. È paradossale, eppure così avviene quando il Vangelo è annunciato e giunge agli uomini e alle donne!
Ma cosa sono “queste cose” che Dio ha nascosto ai saggi e rivelato ai piccoli? Essenzialmente la rivelazione che Gesù è colui che racconta e narra Dio (cf. Gv 1,18); e, insieme, la rivelazione da parte del Padre di Gesù, il Figlio, al credente. Su tale verità Gesù tornerà ancora nel vangelo secondo Matteo: “A voi è stata data la conoscenza dei misteri del regno dei cieli, a voi piccoli, poveri e umili, a voi discepoli” (cf. Mt 13,11). La missione di Gesù, e di conseguenza quella del discepolo, dell’inviato, può avvenire solo così: nel fallimento e nel successo si scoprono le intenzioni più profonde con cui Dio affida una missione al discepolo stesso.
Ed eccoci davanti alla grande rivelazione, che qualcuno ha definito “un bolide giovanneo” caduto in Matteo. Senza proiettare su queste parole nozioni teologiche che la chiesa ha saputo formulare più tardi, con l’aiuto dello Spirito santo, cerchiamo di comprendere questa autorivelazione di Gesù nella sua luminosa semplicità: “Tutto mi è stato dato dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo”. A Gesù è stato dato tutto perché è il Figlio del Padre, colui che il Padre solo conosce, fino a poter dire di lui: “Tu sei il mio Figlio, l’amato” (cf. Mt 3,17; 17,5). Ma anche Gesù solo conosce pienamente il Padre, Dio, perché da lui è venuto nel mondo, e solo Gesù può far conoscere Dio al suo discepolo, perché nessuno va al Padre se non attraverso di lui (cf. Gv 14,6). Ecco la rivelazione dell’identità di Gesù, del suo rapporto con Dio, della conoscenza di Dio da parte del discepolo. Siamo al vertice della rivelazione divina di Gesù secondo il primo vangelo. Questo il mistero consegnato al discepolo, mistero da adorare, da accogliere in silenzio, da viversi quotidianamente nella fedele sequela di Gesù che ci porta al Padre…
Per questo proprio in quell’ora Gesù si rivolge all’uditorio con un invito: “Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò riposo. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, ‘e troverete riposo per la vostra vita’ (Ger 6,16). Il mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero”. Gesù chiama a sé quelli che cercano Dio, desiderano vedere il suo volto, vogliono avere comunione con lui, ma sono gravati da precetti umani, intransigenze religiose, rigidità morali, insegnamenti non traducibili in vita… Li chiama a sé perché il suo “giogo” è dolce, leggero, semplice, e richiede solo di essere accolto con gioia, confidando nell’amore di Dio che è sempre preveniente e mai va meritato. Gesù è l’uomo delle beatitudini, proclamate perché da lui vissute in prima persona: è povero e umile, capace di piangere, mite, affamato e assetato di giustizia, puro di cuore, operatore di pace, perseguitato. Per chi si trova in queste condizioni, andare a Gesù significa trovare comunione, consolazione, intimità di un maestro che con dolcezza e umiltà accoglie sempre e non esclude nessuno. Chi non riesce a portare i pesi delle leggi, chi riesce solo a dire: “Pietà di me, che sono un peccatore!” (Lc 18,13), può andare da Gesù che lo accoglie tra le sue braccia e in lui riposare. Perché riposare è innanzitutto poter dimorare nella quiete tra le braccia di chi ci ama senza riserve.
C’è un giogo costruito dagli esseri umani, che racchiude comandi, precetti, osservanze, intransigenze, e c’è il giogo di Gesù, che è accoglienza dell’amore, della misericordia di Dio, dell’amore di fratelli e sorelle. Il giogo di Gesù non è senza fatiche: ma altro è faticare in quanto obbligati da precetti, altro è faticare per amore e ricevendo amore. Solo i piccoli, però, capiscono questa rivelazione, oggi come allora.