Omelia di ENZO BIANCHI
Questa sera nella celebrazione vigiliare nella memoria di S. Eusebio, il vescovo monaco fondatore della nostra chiesa pedemontana, noi accogliamo nella nostra koinonía un nuovo fratello
Accoglienza liturgica
di Fr. EMANUELE BORSOTTI
Questa sera nella celebrazione vigiliare nella memoria di S. Eusebio, il vescovo monaco fondatore della nostra chiesa pedemontana, noi accogliamo nella nostra koinonía un nuovo fratello, Emanuele. L’accoglienza di un nuovo monaco è sempre un’azione che ci rallegra, perché nuova vita entra nella nostra vita, ma soprattutto perché ancora una volta si compie quell’offerta al Signore che è il vero culto cristiano, il culto seconda la Parola e lo Spirito (cf. Rm 12,1; Gv 4,23-24). Ma l’accoglienza di un fratello è anche sempre un atto che ci deve interrogare sulla nostra vita monastica, sulla risposta nostra, di ciascuno di noi e di tutta la comunità insieme, perché anche la comunità nel suo insieme è un soggetto, un soggetto corporativo: ognuno di noi e l’intera comunità intera deve interrogarsi sulla vocazione ricevuta dal Signore.
A volte io mi chiedo, e non sembri un linguaggio semplicemente paradossale: «Abbiamo noi iniziato a vivere la nostra vocazione? Abbiamo iniziato a vivere la vita monastica? La vita comune, sì, non foss’altro che la vita comune, abbiamo iniziato a viverla veramente?». Possono sembrare domande che echeggiano alcuni detti dei padri del deserto, ma in realtà sono le domande necessarie per la vera dinamica della vita cristiana, che non solo non sembra mai giungere al télos, al fine, a una certa pienezza. A volte proprio questa dinamica della vita cristiana sembra talmente contraddittoria, faticosa, da dover essere letta come un continuo cadere, come un alternarsi di fallimenti e di brevi momenti in cui sembra che sia riuscita qualcuna delle proposizioni che la vita monastica aveva osato fare.
C’è soprattutto un punto su cui noi dovremmo interrogarci nel nostro cammino monastico, un punto che di fatto riassume tutta la nostra vita, che dice l’essenziale della nostra vita di sequela dietro a Gesù. Non è solo qualcosa che possiamo desumere dalla tradizione monastica, ma è un punto annunciato chiaramente da Gesù; e poi i Padri, soprattutto il nostro amatissimo Basilio, hanno capito che questa è la domanda centrale che il monaco deve fare sulla sua sequela. Il punto centrale è la rinuncia, apotaghé. Gesù ha detto: «Chi non rinuncia a tutti i suoi beni, non può essere mio discepolo» (Lc 14,33). Dove «tutti i propri beni» non sono i beni generali, ma sono quei beni che soltanto chi si mette alla sequela di Gesù può discernere come beni ai quali deve rinunciare per essere semplicemente uno che segue Gesù. Nell’ottava delle sue Regole diffuse Basilio, commentando queste parole di Gesù, scrive: «La rinuncia perfetta consiste nel giungere al distacco dalla propria stessa vita e nel ricevere sentenza di morte, così da non riporre più fiducia in se stessi». Parole che io completerei, o meglio espliciterei, perché Basilio echeggia Paolo: «… così da non riporre più fiducia in se stessi, ma in Dio che risuscita dai morti» (cf. 2Cor 1,9). Rinunciare è una parola che oggi detestiamo, è una parola che abbiamo espulso dal vocabolario della spiritualità cristiana, eppure ciò che essa designa è l’atto reale, elementare, ma essenziale e decisivo nel cammino della sequela: rinunciare a molte cose che riteniamo beni, fino addirittura a rinunciare alla vita, fino ad accettare di ricevere su di noi sentenza di morte; rinunciare a ciò che abbiamo, per giungere a rinunciare addirittura a ciò che siamo. In ogni caso si tratta – lo dico con le parole di Gesù – di rinunciare a se stessi, rinnegando se stessi (cf. Mc 8,34 e par.).
Ma cosa sono i beni a cui un monaco dovrebbe rinunciare per percorrere la sua vita e realizzare la sua vocazione? Ci sembra a volte di saperlo troppo bene, perché lo desumiamo dalle parole di Gesù: la terra, la famiglia, il lavoro (cf. Mc 10,29; Mt 19,29). Ma in realtà al di là di questa triade, che è diventata classica nella vita religiosa, ci sono molte altre rinunce che stanno davanti a colui che vuole percorrere la vita monastica. C’è innanzitutto la rinuncia ai vizi, la rinuncia alle seduzioni. L’antico rito del battesimo chiedeva la professione triplice della rinuncia, non solo la confessione di fede in Gesù, ma anche una rinuncia, un ripudio preciso, perché questo è richiesto dalla struttura stessa dell’alleanza con Dio: ci si allea con Dio, ma si rinuncia agli dèi, agli idoli. Ma c’è la rinuncia anche a una vita tranquilla, a una vita nella pace, quando giungono le persecuzioni, e in ogni caso quando giunge l’ora della morte, che dovrebbe essere assunta come un atto in cui si rinuncia alla vita ricevuta in dono da Dio e la si ridà a Dio puntualmente come offerta eucaristica di ringraziamento: perché rinunciare alla vita e metterla nelle mani di Dio, questa è l’eucaristia delle eucaristie che ci attende tutti, prima di poter entrare nel Regno.
Certamente la vita monastica di cui abbiamo lunga esperienza, ci ammonisce: a ciascuno è richiesta una rinuncia, apotaghé, ma solo ciascuno sa qual è quella rinuncia che il Signore gli chiede, la rinuncia più costosa, quella che richiede più fatica, che deve essere rinnovata e confermata fino alla fine. La vocazione è sempre un mistero personale, anche all’interno della stessa forma vitae di sequela, e io sono convinto che proprio sulla rinuncia verifichiamo le differenze in comunità, così come sulla rinuncia siamo giudicati per la stessa fatica a viverla che ci accomuna tutti. Ognuno di noi ha un suo corpo, ha una sua psiche, ha una sua storia: noi non siamo uguali, non siamo uguali né negli affetti, né negli attaccamenti, né nelle sensibilità ma neanche nelle tentazioni e nelle seduzioni. Nella vita monastica si impara che c’è chi di noi ha dovuto rinunciare alla sua terra e ha fatto molta fatica a rinunciarvi; altri hanno dovuto rinunciare a cose che possedevano; altri hanno fatto un’immensa fatica a rinunciare alla famiglia, al padre e alla madre, e magari non hanno fatto fatica a compiere altre rinunce che la vita monastica richiede. C’è chi deve rinunciare a dominanti presenti nel suo corpo che sono incompatibili con un «corpo tempio dello Spirito santo» (1Cor 6,19); c’è chi deve rinunciare al lavoro che aveva, all’ambiente in cui ha vissuto… Nessuna illusione: la rinuncia per la vita monastica in ogni vocazione è presente, costa, è faticosa, e la rinuncia non si può rimuovere dalla vita cristiana. Cambia solo l’oggetto cui si deve rinunciare, perché noi siamo in questo veramente diversi.
La mia esperienza mi fa dire, ormai anziano, che l’unico ostacolo serio alla vita monastica è l’incapacità o il non voler rinunciare. Non ci sono altri ostacoli, neanche le cadute, neanche i peccati, neanche le debolezze: tutte queste cose non impediscono una vita monastica, ma il non saper rinunciare, questo sì la impedisce. Nella vita monastica si conoscono cadute, si può essere attratti dai vizi e ci si può rialzare. Ma se uno non sa rinunciare a se stesso, ai suoi beni, gli è impedito ogni progetto di sequela cristiana. Leggevo nei giorni scorsi un passo di Gregorio Magno che mi ha fortemente stupito. Con molta audacia Gregorio arriva addirittura ad affermare che nella vita monastica a volte i peccati di impurità e di lussuria sono nient’altro che un rimedio offerto a chi non ha mai rinunciato a se stesso, alla propria immagine. Scrive Gregorio Magno: «C’è chi si esalta attraverso l’orgoglio e commette un peccato interiore. Colpito dall’impurità, dalla lussuria, viene ferito visibilmente nel corpo, perché riconosca il suo peccato invisibile nel cuore, l’orgoglio» (cf. Commento morale a Giobbe XXVI,28). Dai peccati, dalle colpe ci si rialza, e si ricomincia «per inizi senza fine» – dice Gregorio di Nissa (cf. Omelie sul Cantico dei cantici 8) – perché la vita cristiana è solo un re-iniziare, senza mai giungere alla meta della santità: anzi, la santità consiste proprio nel ricominciare. Ma per fare questo bisogna essere capaci di rinuncia. Se non si è capaci, si è nella condizione di quell’uomo ricco che se ne andò perché non sapeva rinunciare, e se ne andò triste (cf. Mc 10,22 e par.). Ed è significativo che il vangelo attesti che era un uomo che aveva sempre, sempre obbedito alla Legge: tutti i comandamenti li aveva osservati fin da quando era ragazzo (cf. Mc 10,20; Lc 18,21).
Un anziano monaco diceva: «Non basta una vita interiore profonda, non basta neppure un sincero e vivo amore per Dio per raggiungere la santità cristiana. Occorre una capacità di rinuncia, di rinnegamento di sé, che consegni il monaco al lavoro di Dio, all’opera che solo Dio può compiere nel monaco. Senza rinuncia la vita interiore è soltanto una vita intellettuale di alta qualità, l’amore di Dio è solo il frutto di una disciplina di sentimenti, ma non c’è in questo sequela dietro al Signore». Noi dobbiamo ricordare tutto questo, e si badi bene: non si tratta di rinunciare solo al male, ma a certi valori che sono anche buoni. Questo è il prezzo della scelta che si fa, a costo di conflitti e di fatica. Maurice Bellet ha scritto a proposito della rinuncia: «Il risultato della rinuncia è solitamente la fine del carattere conflittuale che l’inizio del processo di rinuncia riveste. Non che si passi a una semplice tranquillità, senza più né ansie né ferite, si passa piuttosto alla forza, a una forza diventata libera, libera per la relazione, libera per tutto ciò che vi è connesso. Se la rinuncia conservasse un carattere di repressione, se restasse un conflitto bloccato, questo sarebbe il segno di un fallimento. Si deve andare oltre, senza rimuovere la rinuncia. Il processo della rinuncia è altro dal cambiamento positivo che si scontra con le resistenze del modo di essere di prima. Si capisce rinunciando come la rinuncia sia così prossima a quell’altra operazione che è la liberazione, la salvezza».
Cari fratelli e sorelle, ecco, su questo tema della rinuncia siamo invitati tutti a fare discernimento. Il mio invito è certo rivolto a Emanuele che questa sera promette al Signore la sequela nella vita monastica in questa comunità; ma è rivolto anche a ciascuno di noi che questa sera assume la responsabilità di un altro fratello, altro perché nuovo, altro perché altro. Queste parole sulla rinuncia – lo avete capito – sono nient’altro che parole ispirate dal vangelo di questa festa: «Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate». Quest’ultima beatitudine rivolta da Gesù ai suoi indica anche l’estrema rinuncia che sta davanti a quelli che hanno rinunciato per seguire Gesù. Hanno rinunciato alla terra, al lavoro, alla famiglia – «terra, casa, campi» –, ma dovranno ancora essere pronti a rinunciare: rinunciare alla tranquillità di una vita in pace, rinunciare a essere benedetti da tutti, rinunciare a essere lodati da tutti, rinunciare a essere accolti da tutti, anche a essere accolti a casa propria. Se infatti è toccato a Gesù di non essere accolto dai suoi, chi siamo noi per essere sottratti anche a questa prova? Questa beatitudine ci indica l’accettazione di calunnie, di ostilità, di persecuzioni, di non comprensione. Come è avvenuto a Eusebio che, pur senza aver versato il sangue per il Signore, viene ricordato tra i martiri dalla grande sapienza della chiesa, per aver vissuto questa situazione di ripudio sia da parte della chiesa stessa, nella sua porzione ariana, sia da parte di quelli che erano i poteri della chiesa dominante.
Se il vangelo dice che la beatitudine sta proprio in questo rinunciare addirittura alla vita nella pace, anzi alla stessa vita, a causa della persecuzione, vuole dirci che questa è la condizione cristiana, ma è l’unica condizione per essere sale della terra, per essere luce del mondo. E anche questa polarità noi dovremmo impararla: la polarità del nascondimento, perché il sale è sempre nascosto, non lo si vede, soprattutto quando lo si gusta nel cibo o nel pane; e dall’altra parte la polarità di una luce manifesta, la luce addirittura di una città posta sul monte. Nella nostra vita dobbiamo assumere anche questa polarità tra nascondimento e manifestazione pubblica. Ma la condizione per essere sale e luce – non dimentichiamolo – è proprio questa capacità di rinuncia, questa capacità di aver rinunciato all’inizio della vita monastica e di allenarci a rinunciare sempre, anche più avanti, in forme inedite, impossibili da prevedere. Sì, la rinuncia arriva, e ho l’impressione che sia l’unico dato che ritma la vita monastica, l’unico che non scompare mai.
E ora un pensiero per Emanuele. Nella grande gioia di poterlo dire fratello nella nostra comunità, io gli dico di non dimenticare mai questa parola – rinuncia, apotaghé – nella certezza che questa gli garantirà di seguire il Signore e di essere sempre più simile, conforme a lui. Non c’è un’altra parola che si può promettere a chi si fa monaco. Ma seguire il Signore significa una comunione con il Signore, significa non poter mai dire di essere soli, anche quando magari c’è la solitudine rispetto agli uomini: il Signore garantisce la comunione, il Signore fa fiorire anche la solitudine di una persona. Quindi questa parola dura – rinuncia, apotaghé – significa semplicemente comunione con il Signore, lui che ha rinunciato addirittura alla sua condizione di essere in forma di Dio e ha voluto essere uno di noi, uno schiavo, un uomo, in tutto uguale a noi (cf. Fil 2,6-8). L’altra parola che gli dico, guardando al suo cammino di monaco e di chi si prepara a un servizio alla comunità e alla chiesa nell’arte liturgica, è di non dimenticare che l’eucaristia o è vissuta nel corpo, o è eucaristia secondo la Parola (loghiké latreía: Rm 12,1) oppure non è, non è. Queste sono le parole che gli do in consegna e sono parole che lo potranno aiutare a compiere e a portare a termine la sua vocazione, con la grazia del Signore che non gli mancherà, perché il Signore gli è vicino: il Signore lo ha chiamato fin da giovane, fin da piccolo, il Signore lo ha voluto sempre tutto per sé e non può mai smentire chi gli ha risposto.
Esprimo infine un grazie ai genitori. I genitori hanno solo Emanuele, è figlio unico, e possiamo capire il costo di questa offerta che questa sera fanno al Signore: lo hanno avuto dal Signore e lo ridanno puntualmente a lui, ma anche questo fa parte della vita cristiana. Io li ringrazio perché lo hanno aiutato a essere cristiano, a sviluppare la grazia del battesimo, ad arrivare a questa comprensione della vocazione. Un grazie lo devo esprimere anche a quanti hanno seguito Emanuele, a don Sebastiano Galletto, che conosco, a don Domenico che lo ha accompagnato fino a qui. Tutto questo ci dice come la vita cristiana sia una vita che si gioca come un tessuto, in cui noi siamo semplicemente i fili che costituiamo il tessuto, ma chi tesse è Dio. Però in questa tessitura noi cogliamo ancora una volta come Dio è fedele, come la sua Parola è una Parola ancora efficace (cf. Eb 4,12): chiede soltanto di saper rinunciare per seguire il Signore, di saper rinunciare a sé stessi, in molte maniere, ma in vista della salvezza e della libertà.