La Stampa, 22 dicembre 2013
di ENZO BIANCHI
articolo in versione integrale
Anche questo sarà un Natale nella crisi, aggravata dal crescere della disoccupazione. Per molti, soprattutto giovani, non c'è lavoro, per altri è diventato difficile arrivare alla fine del mese con il proprio salario. E per molti pensionati la situazione è segnata da penuria e grave povertà. Non tutti lo vedono, ma lo sanno molto bene quelle iniziative o istituzioni caritative che hanno visto aumentare le fila di quanti cercano un pasto caldo o "mendicano" pane, latte, pasta, un po' di formaggio, qualche scatoletta di cibo...
Ma, aspetto ancor più preoccupante, in questo Natale domina la poca fiducia, la mancanza di speranza, e in alcuni cova una rabbia che a volte sembra pronta a esplodere nella violenza e nella voglia di dare una lezione a quanti sono ritenuti responsabili della situazione, nella rivalsa verso quelli che continuano a non patire la crisi, mostrando uno stile di vita lussuoso e arrogante. Certo, si mangerà il panettone, perché anche questo è distribuito e donato ai poveri, ma in molti cuori non ci sarà quella gioia che noi tutti immaginiamo collegata con questa festa, e addirittura per alcuni questa festa aggraverà la fatica e la sofferenza, come a volte accade quando i sofferenti vedono la gioia degli altri.
Essere consapevoli di questa "realtà" dovrebbe renderci particolarmente responsabili – soprattutto se non siamo feriti in modo grave dalla crisi – verso quanti sono nel bisogno. Non è necessario assumere grandi iniziative: basta che, usciti di casa, ci fermiamo a guardare negli occhi, volto contro volto, quelli che soffrono; basta che, conoscendo quella particolare famiglia nel bisogno, andiamo a trovarla rendendola prossima: allora il nostro cuore, le nostre viscere di compassione, ci detteranno il comportamento, ci ispireranno cosa condividere, cosa gratuitamente donare. Noi uomini e donne non siamo cattivi: siamo distratti, siamo in fuga, abbiamo fretta e non abbiamo tempo di fermarci.
Ma se avessimo la forza di fare questo, cioè di incontrare e guardare negli occhi chi è nel bisogno, sapremmo cosa fare e avremmo il coraggio, la spinta per farlo. Conosceremmo, soprattutto a Natale, la festa dello scambio dei doni, scopriremmo che c'è più gioia nel dare che nel ricevere, e il nostro dono gratuito innescherebbe una dinamica feconda in virtù della quale chi ha ricevuto dona a sua volta.
D'altronde il presepio che troviamo qua e là nelle piazze o nelle chiese, o quello che noi stessi costruiamo nelle nostre case, che cosa ci narra? La nascita di un bambino da una coppia povera, una famiglia in viaggio, per la quale non c'era posto neanche nel caravanserraglio. Eppure verso quella grotta, verso quel neonato arrivano tanti poveri: pastori, donne di casa, abitanti dei villaggi, e arrivano con doni per il bambino povero, in fasce, che ha per culla una mangiatoia di stalla. È dunque il presepio che ci invita a fare altrettanto.
Se ci piace vederlo, contemplarlo, se lo costruiamo per essere in festa, allora si tratta di rifare lo stesso movimento: andare verso chi ha bisogno e gratuitamente donare a chi non può contraccambiaci. E poi per i cristiani il presepio diventa profezia. Quel bambino nella mangiatoia, infatti, ha anche detto, quale Messia e Giudice: "Tutto ciò che avete fatto a uno di questi poveri che sono miei e vostri fratelli, l'avete fatto a me".
Ma sappiamo discernere il povero nei poveri concreti, che sono accanto a noi? A Natale cantiamo Gesù povero, nutriamo sentimenti ideali verso "il povero bambino al freddo e al gelo", ma poi riconosciamo chi è nel bisogno e abita magari nel nostro stesso palazzo, sullo stesso pianerottolo o nelle case vicine? Noi siamo facilmente attratti dalla "carità presbite", quella carità che ama chi sta lontano e lo fa stare lontano, ma non amiamo il povero accanto a noi, in casa nostra, in vera relazione con noi.
Per questo la crisi economica, che prima di tutto è sociale, culturale e soprattutto etica, dovrebbe essere un'occasione per vivere in modo diverso, in modo semplicemente più umano e umanizzante, la nostra vita sociale. Natale, con la sua tradizione, il suo messaggio, può interpellarci e aiutarci a compiere passi concreti, in modo da conoscere una convivenza migliore e cominciare così ad avere fiducia gli uni negli altri, a sperare insieme per tutti. Quando ero ancora un bambino, nell'immediato dopoguerra (ed era un tempo di crisi, anzi di miseria!), il giorno di Natale a tavola si riservavano un piatto e una sedia nel caso si presentasse un povero per festeggiare. Era il segno che si era pronti a condividere quel poco che c'era: avere a tavola qualcuno arrivato come una sorpresa accresceva la festa...
Chissà se qualcuno la notte di Natale sentirà una predica come questa fatta da san Girolamo: "Noi oggi, con la scusa di onorare il Cristo, abbiamo eliminato la sporcizia delle stalle per sostituirla con oro e argento, ma per me è molto più prezioso quello che abbiamo tolto. Oro e argento si addicono ai potenti, ai ricchi, ma a chi crede in Cristo si addice di più quella stalla di terra battuta. Chi è nato nella stalla non vuole né oro né argento!".
articolo in versione integrale
La Stampa, 22 dicembre 2013
di ENZO BIANCHI
Pubblicato su: La Stampa