Il Blog di Enzo Bianchi

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Fratelli Karamazov, il prezzo che vogliamo pagare

01/11/2013 00:00

ENZO BIANCHI

Quotidiani 2013,

Fratelli Karamazov, il prezzo che vogliamo pagare

La Stampa

La Stampa, 1 novembre 2013
di ENZO BIANCHI

Generazione dopo generazione, da giovani, da adulti, da anziani, siamo chiamati a confrontarci con questione aperte, a leggerle nel nostro cuore e in quello degli altri

 

La Stampa, 1 novembre 2013

 

  Quando sento parlare di scarsa qualità dell’insegnamento nella nostra scuola pubblica, mi sorprendo a pensare con gratitudine ai tanti “miracoli ordinari” di professori che vivevano e vivono il loro mestiere come una vocazione all’educazione e alla trasmissione di una cultura aperta e di un’etica civile ai loro allievi. Come leggere diversamente, per esempio, un professore di italiano che in una classe di ragioneria di un normalissimo istituto di una cittadina di provincia non solo avvia gli studenti alla lettura dei romanzi di Dostoevskij, ma addirittura insegna loro i primi rudimenti di russo per invogliarli a leggere quei testi, così come quelli di Tolstoj, in lingua originale?  

 

È così che lessi per la prima volta I fratelli Karamazov di Dostoevskij: era il 1960, avevo diciassette anni, ero attirato dall’impegno politico e affascinato dal mondo spirituale russo, vivevo il clima della guerra fredda come sfida a ricercare il senso della vita più alto di ideali cortine di ferro già calate e di concreti muri che sarebbero sorti da lì a poco. Lessi il romanzo nella traduzione di Alfredo Polledro per i tipi di Mursia, l’ho riletto qualche anno fa nell’edizione Garzanti con la traduzione di Maria Rosaria Fasanelli – perché il sogno del mio professore Giovanni Boano che potessimo leggere i classici russi in lingua originale è rimasto tale – ma ciò che mi interroga non è la diversa resa in italiano o le nuove modalità di traslitterazione dei nomi russi, bensì quell’intreccio di novità e perennità che avvolge il mondo evocato da quel romanzo, il mondo come lo vedevo da adolescente e il mondo in cui mi trovo a vivere oggi. Sì, tre mondi apparentemente molto diversi: la Russia di fine ottocento, il Monferrato agli albori del miracolo economico italiano, il mondo che sa globalizzare l’economia e le crisi ma non la solidarietà, la giustizia e la pace. Eppure lo scandaglio dell’animo umano che Dostoevskij opera con tragica sapienza nel suo romanzo è attualissimo, nella società postindustriale come lo era in quella contadina. Come ha acutamente osservato Rowan Williams, “terrorismo, abuso di minori, assenza dei padri e frammentazione della famiglia, secolarizzazione e sessualizzazione della cultura, futuro delle democrazie liberali, scontro tra culture e natura dell’identità nazionale” sono preoccupazioni che ci paiono caratteristiche di questo travagliato inizio del XXI secolo, ma in realtà sono “pressoché onnipresenti nell’opera di Dostoevskij”.

 

In questa sorprendente e inquietante analogia di clima culturale e spirituale, per me rileggere oggi I fratelli Karamazov ha significato anche misurare com’è cambiato il mio sguardo sulle vicende e i personaggi narrati nel romanzo. Non solo perché nel frattempo è venuto meno il filtro della Russia comunista ben presente al mio immaginario di giovane cattolico e democristiano, o perché ho potuto conoscere da vicino e di persona la chiesa ortodossa rinata in questi ultimi decenni, e nemmeno soltanto perché ho avuto perfino l’opportunità di incontrare l’igumeno di Optina, il monastero dello starec Zosima e del giovane Alëša,  e di dialogare con lui, ma soprattutto perché gli interrogativi sollevati da Dostoevskij non hanno mai cessato di interpellarmi. Il rapporto tra Cristo e la verità; come credere in un Dio che è la fonte di ispirazione per una santa ribellione contro le sofferenze umane e, al contempo, l’origine prima di un mondo in cui queste sofferenze hanno luogo; come conciliare un Vangelo annunciato ai poveri e i piccoli con le sue esigenze così radicali che solo pochissimi, o forse nessuno riesce a soddisfare; cosa implica l’assunzione della categoria biblica dell’essere umano come creato a “immagine e somiglianza” di Dio per leggerne miserie e grandezze.

 

Indubbiamente il racconto del Grande Inquisitore, per la sua forza narrativa, è il brano dei Fratelli Karamazov che non ha mai cessato di suscitare interesse nelle menti più vivaci di ogni stagione del pensiero e in quanti sono appassionati del rapporto tra giustizia, verità, potere, colpa e perdono, ma è tutta la narrativa di Dostoevskij a costituire un’ostinata protesta della mente umana contro la morte di Adamo, una lucida affermazione dell’intollerabilità della morte – sia essa fisica, morale o spirituale – di qualsiasi essere umano. In questo senso, il dialogo tra Ivan Karamazov e il Diavolo nel capitolo nono dell’undicesimo libro, riprende e sviluppa  alcuni dei temi delle pagine del Grande Inquisitore e sembra fornire uno sviluppo a quel bacio di Cristo al Giudice che le chiude, aprendole al gioco serissimo dell’interpretazione. Ermeneutica che non può prescindere da quanto appare fin dal dal libro sesto: lì Dostoevskij sembra affidare allo starec Zosima  e alla sua visione di un mondo redento la speranza che può abitare ciascuno di noi, novello  Alëša.

 

Forse l’imperitura fortuna dei Fratelli Karamazov – o perlomeno la stringente attualità che io gli ritrovo ogni volta che lo riprendo in mano – sta proprio nella sublime capacità che Dostoevskij ha avuto di scandagliare l’animo umano, di sviscerare sentimenti, emozioni, desideri, angosce e di porgere il tutto al lettore senza fornirgli risposte certe e definitive. Così generazione dopo generazione, da giovani, da adulti, da anziani, siamo chiamati a confrontarci con questione aperte, a leggerle nel nostro cuore e in quello degli altri, a discuterne tra noi, a confrontarci con serietà con quell’interrogativo fondamentale che il grande romanziere russo ha posto e al quale ha tentato da parte sua di rispondere: “Di cosa gli esseri umani sono debitori gli uni verso gli altri?”. O, in altri termini, che prezzo siamo disposti a pagare per affermare un’umanità che ritrova se stessa nell’essere segno di ciò che è altro da lei, nell’accogliere l’altro da sé, anche quando tutto sembra remare contro?

 

Enzo Bianchi

 

Pubblicato su: La Stampa