La Stampa, 9 luglio 2013
di ENZO BIANCHI
In quell’umile gesto della corona di fiori gettata pregando nel mare di Lampedusa, porta d’Europa, periferia delle periferie, in quell’invito a prendersi cura del fratello come di se stessi
La Stampa, 9 luglio 2013
di ENZO BIANCHI
Sono passati ormai sette anni – e innumerevoli sbarchi, naufraghi, profughi e morti – da quando, pubblicando un libro sugli stranieri e sull’ospitalità, volli dedicarlo “agli uomini, alle donne e ai bambini che, andando verso il pane e sognando la nostra accoglienza, sono morti da stranieri nelle acque del Mediterraneo, mare che avrei voluto che potessero amare e sentire ‘nostro’ come io lo sento e lo amo”. Ed ecco che un uomo, un cristiano, un papa venuto dalla fine del mondo sceglie l’estrema periferia sud dell’Italia per la sua prima uscita da Roma e va in pellegrinaggio a un santuario dell’umanità sofferente, quel mare che ha inghiottito migliaia di persone. Un gesto volto a esprimere la sollecitudine verso gli ultimi, i poveri, quelle categorie sociali che il dettato biblico affida alla custodia dei credenti perché prive di ogni tutela e diritto: l’orfano, la vedova, lo straniero. Un gesto quindi che esprime il modo con cui il vescovo di Roma vuole esercitare il suo ministero di pastore – la cui voce e i cui gesti sono indirizzati a tutti – e vuole praticare la prossimità, la vicinanza come primo passo per amare gli altri.
Un gesto altamente simbolico, ma soprattutto profetico quello posto risolutamente e semplicemente da papa Francesco, capace di interrogare le coscienze – e anche di infastidirne molte, che però si dicono “pronte a difendere la vita”, come si è visto e letto nei giorni che lo hanno preceduto – e di ridestare non tanto l’attenzione quanto le orecchie e il cuore di ciascuno, la capacità che ogni essere umano ha di riconoscere nell’altro un proprio simile, un fratello e una sorella che condivide la comune umanità al di là di ogni differenza di etnia, lingua, appartenenza. Un gesto che vuole ricordare a tutti, a cominciare da chi ha responsabilità politiche ed economiche, che nessun essere umano è clandestino su questa terra, che ciascuno ha diritto a veder riconosciuta e rispettata la propria dignità, che migranti, profughi, esuli, vittime di guerre e di carestie non si metterebbero in viaggio se trovassero pane e giustizia là dove sono le loro radici e il loro cuore. Un gesto che vuole provocare la coscienza di tutti gli uomini e vuole “spingere a riflettere e a cambiare comportamento”.
Papa Francesco ha lanciato questo appello come pastore cristiano che cerca di ritornare alla semplice essenzialità del vangelo che, “nascosta ai sapienti e ai dotti, è rivelata ai piccoli” (Mt 11,25). Così la visita a Lampedusa, il ricordo dei morti e dei sopravvissuti, la gratitudine per chi si è speso nell’accoglienza, l’intero evento è stato posto sotto il segno della dimensione penitenziale e dell’invocazione della remissione dei peccati. Colore dei paramenti violaceo, letture bibliche, sobrietà di parole, gesti e riti: tutto si è articolato nello spazio del credente che si pone di fronte a Dio chiedendo perdono per i peccati commessi, peccati che, come ben sappiamo, sono spesso segnati anche da ciò che noi riduciamo a semplice “omissione” ma che può avere sul nostro prossimo l’effetto di una condanna a morte. Come Erode ha seminato morte per il proprio benessere, anche noi di fatto per il nostro benessere procuriamo morte e miseria a quelli con i quali non condividiamo l’unica terra e le sue risorse. Anche l’altare-barca su cui ha celebrato papa Francesco era significativo: mi sono venute in mente le parole di Giovanni Cristostomo: “Ogni volta che vedrete un povero, ricordatevi che sotto i vostri occhi avete un altare non da disprezzare ma da onorare”.
La centralità riservata alla dimensione penitenziale in una giornata come quella di Lampedusa, ci svela meglio di tanti discorsi come nell’ottica della fede cristiana la liturgia sia una componente della storia e non un’evasione dalla realtà. La preghiera agisce, ha ricadute nel quotidiano, non tanto per un intervento divino estraneo ai nostri comportamenti, non come risultato di un Dio onnipotente chiamato in causa, ma soprattutto attraverso coloro che pregano veramente: dialogando con il loro Signore, ne ascoltano la parola e la volontà, ne invocano lo spirito di discernimento e di forza, si impegnano a mettere in pratica ciò che il vangelo esige da loro.
Allora riconoscere di fronte a Dio la nostra inadeguatezza o addirittura riluttanza nel prenderci cura dell’altro – “sono forse il custode di mio fratello?” è la tragica domanda di Caino – significa già predisporci a una conversione, a un mutamento radicale nel nostro modo di pensare e di agire, a un’apertura verso un mondo più solidale e fraterno. Noi, soprattutto noi credenti, dobbiamo chiederci: “Uomo, dove sei?” e smettere di chiedere: “Dio dove sei?”. Dovremmo riscoprire, come ci ricorda insistentemente papa Francesco, che la difesa della vita comincia dalla difesa degli ultimi della terra, di quelli che soffrono fame e violenza.
I cinici diranno che profughi, sbarchi, naufraghi e morti continueranno ugualmente anche nei prossimi giorni, mesi e anni; alcuni non cesseranno di invocare misure sempre più drastiche e inumane per fronteggiare una pretesa emergenza, molti proseguiranno nel loro disinteresse colpevole o nella cieca brutalità di chi conosce il prezzo di ogni cosa e ignora il valore di ogni singola persona, altri vorranno ridimensionare questo evento dicendo che “il papa fa il suo mestiere” mentre invece, pur ispirato dal vangelo, grida quale uomo a tutti gli uomini: “Basta all’indifferenza, anzi a questa globalizzazione dell’indifferenza che continua ad avanzare”.
In quell’umile gesto della corona di fiori gettata pregando nel mare di Lampedusa, porta d’Europa, periferia delle periferie, in quell’invito a prendersi cura del fratello come di se stessi, in quella memoria resa a uomini donne che cercavano vita per sé e i loro cari e hanno trovato morte anonima occorre cogliere un’urgenza per tutti noi: patire con chi patisce, piangere con chi piange perché questa è fraternità umana, è custodia dell’altro, è compassione! E c’è anche la rinnovata possibilità di avere fiducia nell’altro, c’è il sapersi parte di un’unica comunità, c’è la consapevolezza che “chi ha salvato una sola vita, ha salvato l’umanità intera”.
Enzo Bianchi
Pubblicato su: La Stampa