La Stampa, 9 giugno 2013
di ENZO BIANCHI
Papa Francesco sta “in medio ecclesiae”, non al di sopra, senza esenzioni né immunità. Per questo ci autorizza a sognare, o meglio a invocare
La Stampa, 9 giugno 2013
di ENZO BIANCHI
Da quasi cento giorni risuona l’espressione “papa Francesco”, un’espressione che accende una serenità e a volte anche una gioia in chi la pronuncia e in chi l’ascolta. Ho la chiara memoria che questo avveniva già più di cinquant’anni fa quando si evocava papa Giovanni (semplicemente, senza l’indicazione del numero che lo seguiva).
Va riconosciuto: nella chiesa cattolica “è cambiata l’aria”, “c’è un nuovo respiro”. Queste sono parole molto significative che si ascoltano dalle labbra di vescovi, presbiteri e semplici fedeli. Negare il mutamento che si è verificato sarebbe non voler aderire alla realtà nuova che si è configurata. Ora, molti temono che affermare il cambiamento, la novità di questo pontificato possa coincidere con una critica o addirittura con una contrapposizione rispetto al papa precedente, ma questo è dovuto a una “mitologia” persistente nei confronti del papato, che si vorrebbe segnato da assoluta continuità. La continuità riguarda in verità la fede professata, ma gli stili, i modi di presiedere e di essere pastore devono essere diversissimi, perché i doni del Signore sono diversi tra loro e non solo abbondanti. È tempo che i cattolici comprendano che il ministero di Pietro assunto dai vescovi di Roma è nel suo contenuto sempre lo stesso – confermare nella fede i fratelli ed essere al servizio della comunione tra le chiese –, mentre la forma di questo ministero, come è mutata nei venti secoli della vicenda della chiesa, così muta ancora, anzi dovrà mutare, se tra la chiese si opererà una convergenza ecumenica verso una comunione visibile.
C’è stato un cambiamento palpabile, che la chiesa ha accolto con stupore, per la novità portata da papa Francesco nello stile della vita quotidiana; c’è stato un cambiamento nel modo di insegnare da parte del papa; c’è stata la promessa di un rinnovamento dell’esercizio del ministero petrino, attraverso l’inizio di una riforma della curia romana la quale, proprio alla vigilia della rinuncia di Benedetto XVI, si era trovata in contraddizione con l’evangelicità che le è richiesta nel suo essere a servizio del successore di Pietro.
Francesco non è un papa “teologo”, cioè esercitato nella teologia speculativa e dottrinale, né è esercitato nell’arte esegetica dell’interpretazione delle Scritture, ma è esercitato nella conoscenza e nell’assunzione dei “pensieri e gli atteggiamenti che furono in Cristo Gesù” (cf. Fil 2,5). Ciò emerge da tutta la sua persona e dal suo ministero. Ma non si pensi che questo non riveli la sua qualità di teologo: “teologo perché prega” – secondo la definizione di Evagrio pontico – teologo perché conosce Cristo nell’ascolto delle Scritture e nella sua ricerca sul volto degli uomini, nelle “periferie del mondo”, sulle strade che sono sempre aperte da chi inizia dei cammini, nelle regioni infernali nelle quali gli uomini a volte cadono e dimorano…
Non essendo di madrelingua italiana, il suo linguaggio è poco sfumato, a volte duro, a volte a qualcuno può anche apparire rozzo, ma è un linguaggio del cuore, è il linguaggio del pastore che conosce le sue pecore, le ama e ne condivide la vita. Papa Francesco sta “in medio ecclesiae”, non al di sopra, senza esenzioni né immunità. Per questo ci autorizza a sognare, o meglio a invocare che la chiesa, che noi cristiani siamo più conformi al Vangelo, alla vita umana vissuta da Gesù, alla vita in cui lui ha lasciato le tracce per andare a Dio.
Quali attese dunque suscita il ministero petrino esercitato da papa Francesco? Innanzitutto egli ha annunciato “una chiesa povera e per i poveri”. Non solo una chiesa che ha a cuore i poveri, che “fa il bene” per loro, ma che si fa povera a immagine del Signore, il quale “da ricco che era si è fatto povero per noi” (cf. 2Cor 8,9), per essere solidale in tutto con gli uomini. L’espressione “chiesa serva e povera”, forgiata dal teologo Yves Congar negli anni ’60 del secolo scorso, assunta dal concilio, non ha conosciuto nel post-concilio l’attenzione che meritava. Eppure è il primo punto decisivo per la riforma della chiesa. Papa Francesco viene da una chiesa che ha elaborato “la necessità dell’opzione preferenziale per i poveri”, primi destinatari di diritto della Parola di Dio, e dunque è abilitato a far tornare la chiesa alla povertà evangelica. Nessun pauperismo ideologico, ma o la chiesa è povera oppure non è conforme al suo Signore, e dunque è in contraddizione con l’incarnazione del Signore, con il Dio-uomo che è Gesù Cristo, l’unico Signore di tutti.
Ma abbiamo bisogno anche di una chiesa sinodale, nella quale cioè si cammina insieme, papa, vescovi, presbiteri, popolo di Dio. Il Vaticano II ha espresso delle linee che, in seguito sviluppate, hanno dato luogo alla cosiddetta “ecclesiologia di comunione”; ma la comunione vera, ordinata, efficace, richiede che il ministero di chi presiede venga esercitato in una sinodalità in cui tutti sono ascoltati per quanto li riguarda, tutti sono soggetti che hanno diritto alla presa della parola, tutti sono chiamati all’unità, alla comunione che può essere donata dallo Spirito santo, il quale compagina la pluralità in unità. È in questa sinodalità che le chiese delle periferie potranno far sentire la loro voce al centro e potranno affidare le loro acquisizioni e la loro testimonianza a chi è incaricato del servizio di comunione tra le chiese e della conferma di esse nell’unità. Nella sinodalità potranno anche aprirsi cammini di sussidiarietà, essa pure così necessaria per un’unità rispettosa delle differenze, dei doni e dei carismi plurali che il Signore concede alla chiesa.
Infine, la mia personale attesa è quella dell’unità di tutti quelli che confessano Gesù Cristo come Signore e Figlio di Dio, esegesi del Dio che nessuno ha mai visto né può vedere se non nell’al di là della vita terrena. L’ecumenismo deve essere non un’opzione nella chiesa, ma semplicemente la condizione per essere cristiani: questa è stata la volontà del Signore, e quindi il riconoscimento di chi è battezzato come membro dell’unico corpo di Cristo deve trovare vie di manifestazione concreta ed essere dinamismo di una comunione che “l’amore”, che “è la prima verità”, deve confermare.
Sì, vengono tempi in cui “la Parola di Dio non è rara” (cf. 1Sam 3,1), in cui “regna la pace nella chiesa” (cf. At 9,31), tempi in cui si cerca la comunione all’interno della chiesa e la solidarietà con tutti gli uomini. La chiesa esca da se stessa, sia “estroversa” perché guarda non a sé ma al suo Signore e ai volti del Signore nella storia: gli uomini e le donne, e tra di loro gli ultimi, soprattutto i poveri.
ENZO BIANCHI
Pubblicato su: La Stampa