La Stampa, 29 gennaio 2012
di ENZO BIANCHI
Nel leggere che in Italia il 10% delle famiglie più ricche possiede il 45,9% della ricchezza e che i poveri costituiscono ormai il 14,4% della popolazione
La Stampa, 29 gennaio 2012
di ENZO BIANCHI
Dopo un ventennio in cui è stata bandita quasi fosse un’istanza utopica se non un intralcio all’opulenza oggi, sopraggiunta la crisi con un significativo aumento delle sue vittime, si invoca l’equità e se ne afferma la necessità, ci si appella alla giustizia e all’uguaglianza, salvo ribellarvisi quando queste chiedono sacrifici a tutti e non solo “agli altri”. Ci rendiamo conto della barbarie che abbiamo voluto accogliere, dello scadimento cui abbiamo abbandonato tanti valori necessari alla semplice convivenza civile?
Nel leggere che in Italia il 10% delle famiglie più ricche possiede il 45,9% della ricchezza e che i poveri costituiscono ormai il 14,4% della popolazione mi viene spontaneo riandare alla descrizione della prima comunità cristiana di Gerusalemme: “Nessuno tra loro era bisognoso, perché quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano l’importo di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli; e poi veniva distribuito a ciascuno secondo il bisogno”. Descrizione ormai vecchia di duemila anni, tesa a tratteggiare a posteriori un ideale non sempre collimante con la realtà: solo pochi versetti dopo, lo stesso libro degli Atti degli apostoli ci narra infatti della prima dichiarazione mendace dei redditi, con tragiche conseguenze per i due coniugi “contribuenti” disonesti.
È ovvio che non possiamo pensare di applicare a una collettività di quasi sessanta milioni di individui, membri di una società complessa, multietnica e multireligiosa le scelte individuali di condivisione proprie a una ristretta comunità di credenti (anche per questo è stata inventata la laicità), ma potremmo interrogarci sull’equità nelle misure per governare l’economia, cioè la giustizia intesa non solo come giudizio relativo al rispetto della legge ma come affermazione concreta e quotidiana dell’uguaglianza, almeno di partenza, di tutti i cittadini.
In fondo si tratta essenzialmente di dare piena attuazione agli articoli 3 e successivi della parte prima della nostra Costituzione – patto fondativo della convivenza civile in Italia e bussola decisiva per ogni provvedimento legislativo o esecutivo – dove il diritto-dovere al lavoro è garantito e richiesto a tutti e dove si afferma la salvaguardia del diritto a una retribuzione “in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”. Naturalmente non è facile far accettare a quanti hanno sempre prosperato sulla diseguaglianza principi fondamentali quali la “pari dignità sociale”, la tutela della salute di tutti e di ciascuno, l’accesso all’istruzione anche ai non abbienti, così come è arduo perseguire l’equità in un contesto globalizzato in cui la giustizia sociale e il rispetto dei diritti umani universali sono così sovente disattesi. Si tratta di decidere se fare obbedienza supina a un’intoccabile “legge del mercato”, quasi fosse la declinazione commerciale di una legge naturale, oppure esercitare sapienza e intelligenza nel formulare leggi che il mercato lo regolano e lo mettono al servizio non di un singolo, di una classe sociale o di un’area geografica, ma del benessere dell’umanità intera e delle future generazioni.
Certo, come già per percepire il senso positivo del sacrificio e la “bontà” delle tasse, anche per comprendere e perseguire l’equità sociale è necessaria la consapevolezza di formare un corpo – sociale, appunto – di appartenere a una comunità umana, di non essere abitanti di un’isola felice da godere senza gli altri o contro gli altri. Consapevolezza oggi assai rara, ma che si potrebbe recuperare anche rileggendo alcuni elementi di quelle “radici cristiane” troppo sovente citate per dividere, separare, contrapporre anziché unire. Così non andrebbe dimenticato che quando il cristianesimo si è inculturato nel mondo greco-romano ha anche ereditato il diritto di uguaglianza forgiato da quella cultura – l’isonómia, principio che informava di sé la vita della polis – e ne ha favorito l’estensione a tutti gli appartenenti alla polis, non solo i cives ma anche i barbari: soprattutto nell’ora della pressione da parte dei barbari ai confini della civitas romana, i cristiani hanno saputo dare un grande contributo, riconoscendo l’uguaglianza dei diritti a quanti entravano a far parte di quello spazio civile.
Tuttavia ben presto, già a partire dalla fine del IV secolo, il cristianesimo è stato a sua volta foriero di diseguaglianza: infatti coloro che restavano fedeli alla religio dei padri, al paganesimo, venivano privati dell’uguaglianza con i cives, ormai identificati esclusivamente con i cristiani appartenenti alla grande chiesa… Così, durante il regime di cristianità, di fatto, i cristiani accettarono di convivere con le diseguaglianze che segnavano la società: diseguaglianza uomo-donna, diseguaglianze economiche, diseguaglianze giuridiche; essi accettarono persino la diseguaglianza religiosa, la cui conseguenza più nefasta fu quella di rendere vittime gli ebrei, gli eretici, i pagani, quanti cioè erano extra ecclesiam. L’annuncio del vangelo continuava ad affermare l’uguaglianza di tutti gli uomini, ma in realtà si accettava e si instaurava la diseguaglianza in nome di una interpretazione restrittiva del vangelo stesso, che non riconosceva uguali diritti e uguale dignità a chi non apparteneva alla societas christiana…
Lungo tutto il medioevo nella vita cristiana secolare il magistero restava chiuso nello schema dell’“uguaglianza proporzionale”, che riconosceva a ciascuno solo ciò che gli era dovuto in base al suo rango, in base all’ordo e alla potestas accordatigli dal consesso civile. Solo il monachesimo, quando vissuto nella sua identità più genuina, mantenne viva l’esigenza dell’uguaglianza tra barbari e latini, tra nobili e appartenenti alle classi sociali più basse, tra ricchi e poveri: proprio in virtù, non a caso, della sua vocazione a costituire un “corpo”, a creare un’unità di intenti e una condivisione di strumenti per raggiungerli, a pensare se stessi e il rapporto con gli altri in una dimensione comunitaria in cui il singolo è accolto nella sua diversità, con i suoi limiti e le sue potenzialità, ed è stimolato a collaborare all’edificazione del bene comune. Come non vedervi un’analogia con la nostra Costituzione quando prescrive che “ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, una attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”?
Sì, perché uguaglianza non è dare a tutti le stesse cose – forse è per schivare l’astrattezza di questa promessa che oggi vien spesso preferita la parola “equità” – ma riconoscere a ciascuno la medesima dignità di essere umano e fare in modo che possa accedere alle risorse necessarie per una vita degna di tal nome: solo se saremo capaci di dare a ciascuno secondo il suo bisogno di umanità, la nostra convivenza sarà degna del nome di civile.
Enzo Bianchi
Pubblicato su: La Stampa