Il Blog di Enzo Bianchi

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​Fondatore della comunità di Bose

Con il vangelo nelle periferie esistenziali

31/03/2014 00:00

ENZO BIANCHI

Conferenze archivio,

Con il vangelo nelle periferie esistenziali

ENZO BIANCHI - 31/03/2014

Cagliari, 31 marzo 2014
37° Convegno Nazionale delle Caritas Diocesane

Introduzione


Ringrazio il vescovo mons. Giuseppe Merisi per avermi personalmente invitato a questo convegno. Ho accettato con gioia, anche perché fin dall’inizio l’amico don Giovanni Nervo mi aveva chiamato a intervenire ai primissimi convegni della Caritas italiana, e ho sempre seguito con molta simpatia il vostro cammino, a volte con apprensione, ma sempre con uno sguardo grato per la vostra presenza. Sono infine contento di essere qui in Sardegna, una terra che amo particolarmente.
Il tema della riflessione affidatami è stato riassunto in un’espressione di papa Francesco, un’espressione con la quale egli vuole dire come, secondo il suo cuore, debba avvenire l’evangelizzazione, l’andare con il Vangelo fino alle periferie esistenziali. Per più di diciassette volte papa Francesco è ritornato nei suoi interventi su questa espressione, già enunciata nella messa crismale del 28 marzo 2013 e ben spiegata nel discorso al convegno ecclesiale della diocesi di Roma il 17 giugno 2013.
Dunque, le periferie esistenziali sono i luoghi in cui “c’è sofferenza, c’è sangue versato, c’è cecità che desidera vedere, ci sono prigionieri di tanti cattivi padroni” (messa crismale); sono i luoghi abitati “da tutti coloro che sono segnati da povertà fisica e intellettuale” (convegno di Roma); sono i luoghi dove sta “chi sembra più lontano, più indifferente” (Omelia nella giornata mondiale della gioventù, Rio de Janeiro, 28 luglio 2013), dove “Dio non c’è” (Visita pastorale ad Assisi, Incontro con il clero e i religiosi, 4 ottobre 2013); sono “le periferie che hannobisogno della luce del Vangelo” (Esortazione apostolica Evangelii gaudium 20).
Questa espressione di papa Francesco ha avuto una grandissima fortuna, e ormai è ripetuta ogni volta che si parla dell’evangelizzazione o della presenza dei cristiani nel mondo, perché indica gli estremi confini, là dove forse i credenti non vorrebbero andare. Credo che questo termine estremo dell’evangelizzazione sia però già presente nelle sante Scritture sotto altre forme: “le isole lontane”, “gli estremi confini della terra”…  In particolare è il Vangelo, è soprattutto il Signore Gesù a indicarci, attraverso i suoi incontri con uomini e donne, dove sono riconoscibili queste periferie esistenziali. A patto però di non definirle prima. Qui faccio un discorso esigente per noi cristiani: sono convinto che, se vogliamo veramente interpretare la parola e l’azione di Gesù testimoniate nel Vangelo e se vogliamo essere suoi imitatori, dobbiamo smettere di predefinire, di pre-eleggere gli uomini e le donne verso i quali vogliamo andare. Sì, perché noi in qualche modo continuiamo a farci una domanda sbagliata, anche nell’evangelizzazione e nel servizio della carità che è a essa inclusivo: “Chi è il mio prossimo?”. Questa è la domanda sbagliata che nel vangelo secondo Luca risuona, rivolta a Gesù, sulla bocca di un dottore della Legge (Lc 10,29). E oggi, in parallelo, le domande sbagliate sono: “Chi sono i poveri? Chi sono i bisognosi? Quali sono le periferie esistenziali?”.
Sappiamo bene che Gesù capovolge questa domanda in: “Chi si è fatto prossimo?” (Lc 10,36), perché il prossimo è colui che io decido di incontrare. Questa precisazione di Gesù è decisiva. Se uno si immette nella logica del ricercare chi è il prossimo, sbaglia, perché finirà per prestabilire chi vuole incontrare, finirà per decidere lui il bisogno del prossimo, mentre la necessitas è quella di farsi, di rendersi prossimo a chiunque si incontri, a ogni uomo o donna che ci passa accanto. La vera necessitas è la decisione della prossimità verso l’altro, non importa chi lui o lei sia; non dobbiamo avvicinarci all’altro perché è nel bisogno, ma l’altro deve essere reso prossimo in quanto uomo o donna, fratello o sorella in umanità. Nell’incontro poi conosceremo il suo eventuale bisogno: solo così si può fare un cammino che umanizza chi incontriamo e noi stessi. È la fraternità o la sororità che ci stabilisce quali persone e soggetti, perché nessuno può diventare soggetto, può umanizzarsi, senza la relazione con gli altri.
Proprio come ha fatto Gesù: egli incontrava uomini e donne – ci raccontano i vangeli –, sovente anonimi. Persone che Gesù “vede” (oráo), “guarda” (blépo) nel suo vivere quotidiano, nel suo camminare per le vie della sua terra. E proprio da questo vedere, guardare, nasce la prossimità: Gesù si fa vicino o accetta che l’altro si faccia vicino a lui e, ascoltandolo, “volto contro volto”, “occhio contro occhio”, “mano nella mano”, conosce la precisa situazione di bisogno, di sofferenza in cui l’altro si trova, e così, di solito, inizia a porgli domande. A volte incontra un malato nel corpo, altre volte un malato nella mente, altre volte un malato nello spirito, altre volte un peccatore… In ogni caso, Gesù vuole incontrare l’altro e si interessa alla sofferenza dell’altro e non al suo eventuale peccato. Lo dico perché noi uomini di chiesa, quando incontriamo l’altro, spesso ci interessiamo più al suo peccato che alla sua sofferenza e alla sua fatica di vivere, e questo non è secondo il Vangelo! La periferia spirituale o esistenziale in cui l’altro abita è scoperta da Gesù nell’incontro, non da lui prestabilita. E Gesù lo dice: è venuto per tutti i malati, per tutti quelli che non si sentono giusti ma peccatori (cf. Mc 2,17 e par.). Mi ha sempre impressionato che Gesù si sia manifestato pubblicamente nella kénosis, nella spogliazione, mettendosi in una fila di peccatori, lui che non aveva peccato, per chiedere a Giovanni il Battista di essere immerso con loro per la remissione dei peccati (cf. Mc 1,9-11 e par.). E la fine della sua vita avverrà su una croce, condannato a morte in mezzo a due peccatori.
Questo itinerario di discesa di Gesù, per raggiungere noi uomini e trovarci dove siamo (fino alla “discesa agli inferi”, come recitiamo nel Credo!), deve essere l’itinerario del discepolo, di chiunque alla sequela del Signore è chiamato ad annunciare e testimoniare il Vangelo. Sono sempre stato convinto, e l’ho sempre scritto, che il discepolo di Gesù deve esemplare la vita di Gesù stesso, niente di meno, per quanto è possibile a noi! Il cristiano deve fare come lui ha fatto, parlare come lui ha parlato, incontrare l’altro come lui lo ha incontrato. Si tratta di narrare, di raccontare Gesù, così come Gesù ha narrato, ha raccontato Dio (exeghésato: Gv 1,18).
Fatte queste precisazioni cristologiche preliminari, vorrei ora con semplicità precisare il cammino del Vangelo della carità e il suo stile.

1. Il cammino dell’evangelizzazione
Noi confessiamo che il soggetto assoluto dell’evangelizzazione è Dio, che invia il Figlio nel mondo, il quale nella forza dello Spirito santo consegna la buona notizia del Vangelo all’umanità intera. E sappiamo che la chiesa è chiamata, nella storia e nella compagnia degli uomini, a predisporre tutto perché questa missione del Figlio possa raggiungere gli uomini. Per essere dunque fedele a questa sua vocazione la chiesa deve innanzitutto sentirsi non al centro, bensì decentrata (come Gesù, che parlava di sé quale “Figlio dell’uomo” sempre alla terza persona, mettendo al centro solo l’annuncio del Regno di Dio!). Va riconosciuto che questo movimento, come non è facile per ciascuno di noi, non lo è neppure per la chiesa, che è tentata di porsi al centro, di attirare a sé gli uomini e le donne, di sentirsi soddisfatta e “introversa”, o a volte assediata e dunque paurosa.

 

Una chiesa in uscita

Il primo passo da compiere è cercare di essere “una chiesa in uscita” (cf. Evangelii gaudium 20-24), in modo da lasciare Cristo al centro e da annunciare il Vangelo a tutti, in tutte le situazioni, senza repulsioni e senza paure. Troppo spesso negli ultimi decenni abbiamo dato l’immagine di una chiesa che, come la chiesa nei giorni successivi al fallimento umano del suo profeta e rabbi, appare una comunità che ha paura del mondo, e perciò è rinchiusa (cf. Gv 20,19), tesa a conservare la memoria piuttosto che a sentirla come una buona notizia, unico vero debito che abbiamo verso i non cristiani. Per chiarire questo, papa Francesco è ricorso addirittura a un’esegesi “fantasiosa” ma eloquente di un passo dell’Apocalisse. “Ecco, io sto alla porta e busso” (Ap 3,20), sarebbero parole di Gesù dette alla chiesa dal di dentro, per chiedere che la chiesa, invece di rinchiuderlo, gli apra la porta affinché egli possa percorrere le strade del mondo. Le abitudini, una certa dilezione nei confronti della tradizione, una certa inerzia dovuta alla nostalgia per quello che si è sempre fatto: tutto questo, unito al timore di ciò che appare nuovo, inaspettato, inedito, paralizza la chiesa fino a renderla asfittica.
Eppure abbiamo alle spalle Giovanni XXIII e il concilio Vaticano II, una chiesa che è stata capace di essere profetica e di parlare ai non cristiani: perché dunque temere? Abbiamo paura perché siamo diventati una minoranza? Ma Gesù non ci ha chiesto di guardarci e misurarci come minoranza o maggioranza, ma di sentirci sempre “pusillus grex”, “piccolo gregge” (Lc 12,32), significativo, perché capace di essere “sale della terra” (Mt 5,13) e “luce del mondo” (Mt 5,14). La chiesa deve sentire di nuovo la “sete di dialogare”, perché altrimenti non può incontrare la sete degli uomini. Al pozzo di Sicar, l’evangelizzazione è stata possibile perché si sono incontrate due seti, due assetati, Gesù e la donna samaritana (cf. Gv 4,5-42). Ecco perché il dialogo non è un’opzione possibile, ma è il modo di essere della chiesa: la chiesa non è forse nata nel giorno della Pentecoste, giorno del dialogo tra i giudei e le genti, capaci di intendere un’unica buona notizia nella propria cultura, nella propria lingua, nel proprio cammino di umanizzazione (cf. At 2,1-12)? Come non ricordare quelle parole profetiche di Paolo VI nell’enciclica Ecclesiam suam (1964): “La chiesa deve venire a dialogo col mondo in cui si trova a vivere. La chiesa si fa parola; la chiesa si fa dialogo; la chiesa si fa conversazione” (§ 67)?
E non dimentichiamo mai la descrizione dei cristiani presente in quello splendido testo delle origini che è la lettera A Diogneto: uomini e donne che vivono nella compagnia degli uomini, cittadini leali e sottomessi alle leggi della polis, senza una lingua sacra e senza abitazioni separate, ma capaci di manifestare la “differenza cristiana” rispetto ai pagani. Sapevano vivere dialogando, solidali con gli altri, capaci di condividere i beni, senza inimicizie o strategie di concorrenza, eppure erano significativi, amati dagli altri, “anima del mondo” (cf. soprattutto §§ 5-6).

 

Una chiesa capace di prossimità

Oggi più che mai siamo immersi in una cultura nella quale è dominante la comunicazione virtuale. “Siamo sempre connessi”, e dunque ci sentiamo sempre in relazione, anzi oberati da troppe relazioni, al punto che non riusciamo a viverle adeguatamente e con il discernimento necessario, eppure sono gli stessi sociologi che ci mettono in guardia e denunciano “la morte del prossimo”. Luigi Zoja giustamente avverte: “Nietzsche aveva profetizzato la morte di Dio, ma oggi in realtà è arrivata la morte del prossimo”. E io aggiungo che se è morto Dio ed è morto il prossimo, allora è impossibile vivere il comandamento cristiano sintesi di tutti gli altri (cf. Mc 12,28-34 e par.).
Sì, oggi dobbiamo essere consapevoli delle difficoltà che abbiamo nei confronti della prossimità, del farci prossimi e del renderci vicini gli uni agli altri. Mi permetto di dire che, nella parabola del buon samaritano raccontata da Gesù (cf. Lc 10,30-35), il non fare la carità da parte del sacerdote e del levita è dovuto non a una particolare cattiveria, non all’appartenenza a una casta, bensì al fatto che non si sono resi prossimi dell’uomo bisognoso, vittima dei briganti. Se si fossero fermati e si fossero fatti vicini a lui, se avessero guardato negli occhi quel disgraziato, “volto contro volto”, anche loro avrebbero sentito com-passione, sarebbero stati presi da una stretta alle viscere, dalla com-passione, e gli avrebbero usato misericordia. Noi oggi, come chiesa, “facciamo la carità” più che in altre epoche, ne possiamo essere certi; ma siamo sicuri di vivere la carità evangelica che non è solo donare e condividere i beni, ma è innanzitutto prossimità per incontrare, per poter ascoltare, per poter accendere una relazione nella quale poi operare con responsabilità e amore, secondo i bisogni di chi incontriamo?
La prossimità è essenziale all’evangelizzazione e quindi alla diakonía, alla carità. Occorre decidere di farsi prossimo, di incontrare l’altro, superando precomprensioni, pregiudizi, fatiche e diffidenze. L’altro è sempre un fratello e – possiamo aggiungere nella fede – “un fratello per il quale Cristo è morto” (1Cor 8,11). La conversione pastorale che ci attende non riguarda tanto l’oggetto dell’evangelizzazione – che non cambia ed è estremamente sintetico, secondo le parole di Gesù: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo” (Mc 1,15; cf. Mt 4,12) – ma l’itinerario da percorrere per rendersi prossimi e lo stile di questo cammino: dal cuore della vita ecclesiale che è l’eucaristia, dobbiamo andare incontro all’uomo, scoprire il suo bisogno e saperlo leggere come carne di Cristo. Un cammino, quello della prossimità, che può anche essere umiliante, che è faticoso come l’incontro con i lebbrosi, che è com-passionevole perché chiede di condividere le sofferenze di chi si incontra per accompagnarlo nel quotidiano di una vita umana che cerca senso e chiede di essere salvata. Al riguardo, c’è una parabola di Gesù che dovremmo prendere più sul serio: per fare evangelizzazione, cioè per chiamare al banchetto del Regno, occorre “invitare poveri, storpi, zoppi, ciechi” (Lc 14,13) e andarli a cercare per le strade, le piazze, lungo le siepi, ai crocicchi (cf. Lc 14,21.23)…
Ecco dove il Vangelo deve giungere, perché lì nessuno lo fa brillare, lo evoca, vi allude: qui sono le periferie esistenziali. Ma attenzione: chi di noi non conosce periferie esistenziali, chi di noi non ha transitato in esse almeno una volta nella vita (nella malattia, nella separazione, nella solitudine…) o prima o poi non vi transiterà? La sofferenza causata dalla morte, dalla malattia, dalla povertà, dal peccato non può essere rimossa; non per fatalità, ma perché noi uomini non siamo capaci di salvarci, e per questo Gesù ha detto: “I poveri li avete sempre con voi” (Mc 14,7; Mt 26,11; cf. Dt 15,11). La povertà è cangiante, e oggi la riscopriamo attraverso la crisi, ma sarà sempre presente sulla terra…
Infine, dobbiamo vivere la prossimità anche con questa consapevolezza: che noi non abitiamo a Gerusalemme mentre gli altri abitano a Sodoma e Gomorra; che noi non siamo quelli che vanno nelle periferie esistenziali solo per fare la carità, ma perché le conosciamo in prima persona. Tutti, infatti, siamo sofferenti per il peccato e la fragilità umana, tutti siamo in attesa che il Signore ci visiti nella nostra periferia esistenziale.

2. Lo stile dell’evangelizzazione e della carità. Incarnare il Vangelo della carità. Quotidianità dell’azione caritativa.
Certamente il testo esortativo di Paolo nella Lettera ai cristiani di Colossi che avete scelto quale esergo al vostro convegno – “Rivestitevi di sentimenti di misericordia, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di pazienza” (Col 3,12) – vuole indicare lo stile con cui il Vangelo può raggiungere le periferie esistenziali, lo stile da assumere nel vivere il Vangelo della carità, lo stile della vostra azione che possiamo definire ecclesialmente diakonía, servizio, che è sempre anche caritas-carità. Anche nella traccia che è stata pensata e redatta per questa occasione si parla di stile: stile di profonda relazione, stile di compagnia…
Vorrei quindi sostare con voi proprio sullo stile dell’azione caritativa, nella consapevolezza che Gesù ha molto insistito su questo aspetto; possiamo dire che ha precisato lo stile del discepolo, che si è dilungato nel tratteggiarne i caratteri, molto più che sull’oggetto della buona notizia, come appare dai suoi invii in missione (cf. Mc 6,7-13 e par.; Lc 10,1-16). Questo perché il Vangelo non è tale solo per il contenuto ma deve essere annunciato con uno stile adeguato, coerente con il messaggio stesso. L’azione caritativa dei discepoli non può essere solo un fare il bene ma deve essere un’azione che anche nelle modalità con le quali è esercitata mostri la carità di Dio. Su questo occorre sempre fare una revisione, operare un discernimento – la chiesa nel suo insieme, ognuno di noi, voi che siete impegnati in questa diakonía nella Caritas –, ponendosi una semplice domanda: lo stile è adeguato all’opera che si compie?

 

Una chiesa povera

Per questo dobbiamo mettere innanzitutto in rilievo il tema della povertà: una chiesa può essere per i poveri e agire per i poveri solo se è lei stessa povera; e il cristiano, il discepolo, quale soggetto che si indirizza ai poveri, deve lui pure essere povero. Sono convinto che ciò che è urgente per la chiesa e per la Caritas non è in primo luogo aggiungere, aggiungere azioni a quelle in cui siete già impegnati, quanto piuttosto assumere la povertà come stile. È una sfida enorme! Qui non posso non fare memoria di quelle parole profetiche contenute nel testo conciliare della Lumen gentium:

Come Cristo ha compiuto la sua opera di redenzione nella povertà e nella persecuzione, così anche la chiesa è chiamata a prendere la stessa via … Gesù Cristo … per noi “da ricco che era si fece povero” (2Cor 8,9): così anche la chiesa, benché per eseguire la sua missione abbia bisogno di risorse umane, non deve cercare la gloria terrena, ma con il suo esempio deve diffondere umiltà e abnegazione (Lumen gentium 8).

È così che la chiesa può portare la buona notizia ai poveri. E la Caritas, in un certo senso, benché abbia ovviamente bisogno di risorse, deve però assumere uno stile di povertà, in tutto il suo essere e agire.
Questo a noi appare scandaloso, paradossale. Ci verrebbe da dire, come disse un eminente ecclesiastico italiano: “Non voglio una chiesa povera ma una chiesa più ricca, in modo che possa fare maggiormente del bene ai poveri!”… Ma questo annuncio della povertà è il cuore dell’evangelizzazione e della carità. Una chiesa e dei cristiani che non accettano la dinamica della spogliazione (kénosis), non saranno mai capaci di portare la buona notizia del Vangelo ai poveri, i quali non avranno mai piena fiducia in chi agisce in questo modo. Gesù, venuto a “evangelizzare i poveri” (Lc 4,18; cf. Is 61,1), è stato povero; non è stato nella miseria, certo, ma povero sì, perché ha sempre rifiutato quelle ricchezze, quei beni di questo mondo che Satana gli ha offerto nella seconda tentazione narrata da Luca, quella in cui viene anche svelata la vera identità del demonio, il padrone di tutte le ricchezze della terra: “Ti darò tutto questo potere e la loro gloria, perché a me è stata data e io la do a chi voglio” (Lc 4,6), cioè “io rendo mio amministratore chi accetta da me la ricchezza”!
Papa Francesco l’ha detto subito: “Ah, come vorrei una chiesa povera e per i poveri!” (Udienza ai rappresentanti dei media, 16 marzo 2013), e continua a dirlo in modo ossessivo, come uno che sta dalla parte dei poveri, perché conosce la loro vita e cerca di spogliarsi ogni giorno. Ma il cammino è difficile, ed è una sfida per un servizio come il vostro: le risorse non vanno demonizzate ma devono trovare il loro orientamento in una dinamica di spogliazione da parte di quelli che ne sono amministratori, e devono raggiungere i poveri, nella condivisione di quei beni della terra che il Signore ha voluto destinare a tutti.

 

Una chiesa umile

La seconda caratteristica dello stile della chiesa e del cristiano nell’azione caritativa è certamente l’umiltà, che potremmo anche definire povertà spirituale: essa permette di raggiungere uomini e donne per i quali non avviene il discernimento e il riconoscimento, se non da parte di chi si sente umile come loro, bisognoso come loro della misericordia di Dio. Anche su questa necessaria consapevolezza Gesù ha avvertito, come già si accennava: non è venuto per chi si sente giusto, non è venuto per chi si pensa sano o vedente (cf. Gv 9,39-41), ma è venuto per i peccatori, e per questo i peccatori pubblici, manifesti, “i pubblicani e le prostitute”, precederanno nel Regno di Dio le persone ritenute giuste (cf. Mt 21,31).
Ecco allora una chiesa e dei cristiani che non si impongono ma propongono con mitezza e dolcezza; ecco allora dei discepoli di Gesù che non si sentono assediati né militanti di fronte a una società avvertita come nemica e condannata; ecco un’azione caritativa che non ama epifanie né dare facili testimonianze… Noi oggi, essendoci scoperti come minoranza in mezzo a una marea di indifferenti, avendo perso quella rilevanza a cui eravamo abituati, possiamo essere tentati, soprattutto di fronte a una cultura dominante non più cristiana e a volte anche impegnata nel percorrere sentieri che contraddicono l’umanesimo cristiano, di perseguire forme di presenza forti e aggressive, che ci fanno assumere toni arroganti e ci inducono ad atteggiarci come profeti di sventura. In ogni caso, attraverso una cattiva comunicazione noi trasformiamo la buona notizia in un’opposizione all’uomo contemporaneo. L’apostolo Pietro raccomanda invece ai cristiani “un bel comportamento” (anastrophé kalé: 1Pt 2,12), una pratica cordiale del confronto e dell’alterità, senza ostentazione di certezze che mortificano o di splendori della verità che abbagliano.
In quest’ottica andrebbe ancora riletta l’esortazione apostolica di Paolo VI Evangelii nuntiandi (1975), definita da papa Francesco il miglior testo del magistero sull’evangelizzazione, nonché la già citata Ecclesiam suam, con le sue parole sulla chiesa che si fa dialogo. Splendido anche il discorso pronunciato da Paolo VI a Betlemme per la solennità dell’Epifania del 1964, nel quale spiccano le seguenti affermazioni: “La chiesa guarda al mondo con immensa simpatia. Se il mondo si sente estraneo al cristianesimo, il cristianesimo non può sentirsi estraneo al mondo, qualunque sia l’atteggiamento del mondo verso la chiesa”.
Nessuna visibilità a ogni costo dell’azione caritativa, nessuna sovraesposizione, nessuna tentazione da parte della chiesa e dei cristiani di imporsi e di essere riconosciuti per il bene che eventualmente compiono. Anche in questo caso valgono le parole di Gesù: “Non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra” (Mt 6,3)!

 

Conclusione
Concludo ritornando alla parabola del buon samaritano, ma mutandola leggermente (e sperando che Gesù Cristo non se ne abbia a male!). “Un uomo (homo quidam) scendeva da Gerusalemme a Gerico e cadde nelle mani dei briganti, che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto” (Lc 10,30). Passa un sacerdote, passa un levita e vanno oltre, senza entrare in contatto con quell’uomo, senza farsi prossimi a lui (cf. Lc 10,31-32). Passa poi un samaritano (cf. Lc 10,33). Ebbene, io amo dire che passa un altro uomo, anche lui homo quidam, il quale è a piedi come il malcapitato, non ha il giumento su cui cavalcare, né olio, né aceto, né bende, né soldi. Arriva lì, si ferma, vede costui, forse non riesce neanche a parlargli, perché magari la loro lingua è diversa. Che fare dunque? Se se lo fosse caricato sulle spalle, nel caldo del deserto, dopo poco sarebbero entrambi venuti meno per la sete. Non ha altre possibilità, è privo di ogni bene. Allora decide di fare una semplice cosa: gli prende la mano nella propria mano, senza dirgli nulla, e gli sta vicino finché quello muore. Gli dà la presenza, la prossimità, facendo la carità tanto quanto il samaritano.
Non dimenticate dunque: anche una Caritas che non arrivasse ad avere molti mezzi e a fare tante opere, può però sempre fare la carità di chi dà se stesso, la propria presenza all’altro, agli altri. Questo è ciò che il Signore vuole.

Enzo Bianchi
Priore di Bose